“Mio padre fa la donna delle pulizie” di Saphia Azzedine

di / 9 giugno 2011

La solitudine è un nido. Per sottrarsi dal mondo, additando anche l’ombra, per scolpire ogni giorno una culla di smorfie in cui dondolare al ritmo del vento. Anche quando non c’è. E restare immobili intorno a quell’afa.

Polo è solo. Non nel senso ufficiale. Di brefotrofio e infanzia negletta. Di lenzuola prestate su un letto infedele. La sua è un’assenza abitata.

Da una madre impigrita addosso a uno schermo, una sorella carina abbastanza da non volere nient’altro. E un padre che spazza per sopravvivere, che lo ama sottovoce mentre lo rimprovera. Una famiglia troppo sghemba per essere la sua.

Di spugne bisunte e piatti rigati. Di chiacchiere storte senza importanza, banali, soffritte e quasi insapori. E cene da dimenticare.

Polo è povero. Vive in braccio alla periferia, in un palazzone senza ascensore, o meglio senza un apparecchio degno di quel nome; il suo telefono non ha forze a sufficienza per emettere chiamate, ma può riceverle soltanto, quando capita, se capita. E il suo viso non è né brutto né bello, ma cavalca  con classe il gusto insolente dell’indifferenza. Come non esistesse.

Polo è diverso. Sa che pulsa un’unica salvezza. Scappare. Ovviamente restando dov’è.

Ci sono i libri in cui trasferirsi, gli universi di parole che può ritagliare dentro ogni notte, mentre aiuta il papà a lavare le stanze, i fianchi e le dune di uno spazio materno: la biblioteca.

Lì, in quelle ore dopo la scuola, Polo allatta il suo vocabolario, sfoglia Balzac mentre il padre deterge, apprende termini che lo sentono evadere al di là della polvere. Grazie a cui tornare a casa e umiliare i parenti e impressionare Priscilla con qualche stoccata. Ma soprattutto grazie a cui credersi meno comune. E poi disilludersi con puntualità.

È questo lo scenario di “Mio padre fa la donna delle pulizie” (Giulio Perrone Editore), di Saphia Azzedine, scrittrice marocchina approdata in Francia all’età di nove anni.

Una storia di piccole vite che non nega la sua grandezza.

Il protagonista è un ragazzo qualunque e quindi speciale, calato in un tempo non facile, un quartiere un po’ ruvido e sofferente, una Parigi che si dimena, tra i borghesi ovattati e tanti stranieri. Così tanti da non capire chi lo sia veramente.

Attraversa le frustrazioni da adolescente, il voler essere e piacere che sembra impossibile. E trova rifugio solo in due posti: in mezzo alle pagine e nell’abbraccio del padre.

Nel calore maturo di un uomo che è semplice. Ma non scontato. In un rapporto oscillante tra amore e vergogna che commuove e diverte perché non eccede. Che Azzedine ci racconta senza sbavare una riga. Senza elargire aggettivi superflui. In uno stile asciutto e sottile.

La misura azzeccata e sapiente con cui combinare ironia e sobrietà, durezza e dolcezza, perché sono l’una il risvolto dell’altra. Perché ogni parola ha un peso specifico, che grazia o condanna a seconda del luogo in cui viene immersa.

Un romanzo scritto con leggerezza, che è il modo migliore per poter scendere in profondità. Come insegna Calvino. E come l’autrice sembra aver imparato a dovere.

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