“Nessuno sa di noi” di Simona Sparaco

di / 4 luglio 2013

Non è un libro di stagione. Non si scola all’ombra per dissetare le tristezze messe in borsa. Non propina ossessioni erotiche, notti ammanettate in costumi di lattice, stoiche maratone a fior di lenzuola, o turbolenti pomeriggi borghesi, in cui la priorità schiaffata in agenda è quella di abbinare il sandalo al colore dell’aperitivo. Se cercate disimpegno e abbronzatura facile lasciatelo stare. Si conficca più a fondo dell’ombrellone nella sabbia. E non distrae dal dolore. Lo inietta dritto in vena. Chiaro e spaesante. Estremamente scomodo.

Perché l’infelicità sa essere molto democratica, toccando in sorte anche a chi può permettersi un biglietto in prima fila. E soprattutto perché davvero Nessuno sa di noi (Giunti, 2013). Questo ci dice Simona Sparaco, con il suo terzo romanzo tra i cinque finalisti del Premio Strega di quest’anno. Parla attraverso Luce, giornalista affermata che dalla sua rubrica di successo sorseggia la sofferenza altrui. Le sbavature, i conflitti, i graffi screziati in mezzo alla pelle, come un baffo di vernice scappato di mano. Finché arriva la razione prevista per lei. E non c’è bocca sufficiente a ingoiarla per intero. Luce ha trentacinque anni. E il suo corpo bussa, freme già da un po’. Chiede di essere abitato.

Così, insieme a Pietro, il suo compagno, fanno quello che li accomuna a miriadi di altre coppie in cerca di “eredi”. Rincorrono l’attimo, quello biologicamente perfetto, quando tutti gli ingranaggi sono lubrificati al meglio, quando cielo e calendario propiziano e sorridono. S’improvvisa ben poco, non c’è spazio per un poetico imprevisto. Si aspetta la temperatura. Quella dell’attesa. Ma finalmente la pancia si anima, si riempie di promesse. Luce sta per diventare madre e questo evento la allaga. Lorenzo è già lì, dentro la culla, addosso al respiro, a invadere di senso tutta la sua vita. Di figlia agiata e scolorita, con una mamma troppo impegnata a trovarsi per accorgersi di dove fosse lei. Tutto procede, le settimane si divorano per inseguire l’ultima, ma durante l’ennesima ecografia, una smorfia s’inclina sul viso della ginecologa.

Quella foto così intima non la convince affatto. Lorenzo è cresciuto poco, è cresciuto male. Torace e polmoni non vanno d’accordo. Displasia scheletrica è la sentenza finale. Che purtroppo non rivela a sufficienza. Potrebbe tradursi in acondroplasia, un villaggio i cui residenti si chiamano nani. Oppure chissà. Comunque Lorenzo potrebbe non sopravvivere al di fuori di quel buio. E se anche potesse, non sarebbe possibile stabilire come. Galleggerebbe come un’ipotesi sbiadita, come un futuro con le gambe di cristallo.

Luce e Pietro indagano, domandano, invocano altri pareri. Ma poi s’inchiodano. Davanti alla scelta peggiore. Per le leggi italiane quella pancia è troppo piena, troppo estesa per spazzare via il suo contenuto.

E allora non resta che cercare ospedali di altre lingue, altre mani che interrompano quell’incubo.

A Londra Luce partorisce Lorenzo che è già morto, perché qualcuno gli inietta il silenzio mentre sonnecchia. Ma ovviamente dopo non c’è alcun sollievo. Quella non è un’angoscia solubile. Luce è sgonfia, inaridita, avvizzita in quei panni che non guarda neanche più. È preda di un vortice in cui rabbia, amarezza, colpa e solitudine giocano a strozzarsi. E il suo rapporto con Pietro rischia di polverizzarsi. Perché dopo quel vuoto non esiste un domani da chiamare per nome.

Il romanzo interroga una porzione spinosa della nostra coscienza, che spesso ammansiamo con caraffe di buonismo. Ci diciamo che la vita è sacra. Lo sanciscono le nostre regole.

Ce lo suggerisce anche la fiction, in cui ogni gravidanza dopo qualche nuvola è sempre bene accetta, in cui un “no” non rientra nel copione.

Eppure, appunto, Nessuno sa di noi. Nessuno. Neanche noi stessi. Che non facciamo che stupirci e disattenderci, anche in frangenti più spiccioli. Ci sono sottoboschi, vegetazioni di tragedie in cui è difficile addentrarsi e perciò ognuno sceglie il suo passo. I blog in cui Luce si affaccia per capire di non essere sola costituiscono l’esempio più accecante. Costellazioni di donne doppiamente ferite, irritate dal giudizio dei saggi, dei benpensanti con l’opinione sempre in tasca. Perché nella vita degli altri bisognerebbe entrare in punta di piedi. Con la curiosità di un turista e il rispetto di un ospite.

Doppio merito, quindi, a questo libro. Non solo per la scrittura intensa e consapevole (sicuramente la prova più matura dell’autrice), ma per il coraggio di svegliare un dibattito, di aprire una crepa. E attraverso quella crepa, lasciar filtrare un mondo che, se guardato in faccia, potrebbe avere i nostri occhi.

(Simona Sparaco, Nessuno sa di noi, Giunti, 2013, pp. 256, euro 12)

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