“Novecento rom” di Sergio Pretto

di / 14 gennaio 2013

Gli zingari fecero la loro comparsa nell’Europa del Cinquecento. La loro origine si pensa fosse indiana. La loro storia ha oggi quasi tremila anni. La leggenda vuole che il popolo rom, dapprima contadino, fosse stato indotto al nomadismo in seguito all’invasione della propria terra da parte di un popolo ostile che cercò di sterminarlo. Venne in loro soccorso una dea benevola che gli donò per scappare dei formidabili cavalli con l’unica condizione di continuare a correre: «I rom si allontanarono dalla valle insanguinata e non si fermarono più. La fuga divenne un esodo perpetuo: diventarono domatori di destrieri e figli del vento.».
“La tribù profetica dalle pupille ardenti” di cui scrisse Baudelaire divenne presto il simbolo dell’Altro e dell’Altrove, esotico o minaccioso: nell’arte pittorica, ad esempio, Georges de la Tour li ritrasse nell’atto di depredare un ignaro malcapitato mentre quattro incisioni di Callot colgono il carattere segreto, comunitario, arcaico di questa popolazione restia a ogni forma di integrazione.

Novecento rom del giornalista RAI Sergio Pretto ha il grande merito di fugare, grazie all’espediente narrativo di una vicenda familiare avvincente, una serie di pregiudizi e luoghi comuni di stampo razzista verso il pacifico popolo rom visto troppo spesso solo come un popolo sporco di ladri e mendicanti. In realtà si tratta di un popolo talmente consapevole e fissato nella propria identità da essere tacciato per questo come “diverso” e oppresso da tante e tali tare ideologiche da non potersi né confondere né amalgamare, un’ideosincrasia, una sorta di autodifesa quasi maniacale e alla fine dannosa per chi stesso la coltiva.
Sergio Pretto, introdotto al mondo letterario da Pier Paolo Pasolini, ha ereditato dal suo maestro di vita sicuramente l’attenzione appassionata per i dimenticati dalla Storia, i marginali, gli ultimi, gli umiliati e offesi, gli sradicati, le piaghe nel cuore dell’Europa. Si è recato in Romania e ha passato alcuni mesi in un campo rom a Craiova, vivendo, parlando, confrontandosi e a volte scontrandosi con loro. Ha così raccolto la testimonianza, trasformata in romanzo popolare, di una famiglia rom seguita per quattro generazioni attraverso quasi un secolo, dal 1930 al 2011.
Si tratta di racconti antichi e recenti profondamente intrecciati fra loro, pieni di rimandi, di risonanze, flashback e flashforward. Si parte dal dicembre 1989 quando il protagonista Decebal ha 18 anni. In Romania si stanno accendendo i primi fuochi della rivolta contro il regime di Nicolae Ceauşescu. Decebal fa parte di una famiglia profondamente legata alla tradizione del suo popolo ma scossa dal vento di novità auspicato dalla giovane sinti che odia le gonne lunghe colorate e ama vestirsi con i jeans, Jonela: «Decebal crebbe con loro. Visse l’antico e il moderno. Assorbì il vecchio e accettò il nuovo. Nutrì l’adolescenza nella realtà, ma anche nell’immaginazione di chi aveva vissuto la grande fuga del popolo rom». Con il precipitare degli eventi, il consiglio degli anziani decide di obbligare Decebal e altri giovani a fuggire verso l’Occidente: «Quello che avvenne nel 1989 con la caduta e la morte del presidente del consiglio di stato romeno Nicolae Ceauşescu e di sua moglie Elena segnò nel cuore di Decebal il limite tra un passato che non poteva rinnegare e un futuro che non sapeva ancora inventare». Decebal partì con la certezza che avrebbe raggiunto Roma, città vagheggiata ne La dolce vita di Federico Fellini, troppo diversa dalla cruda realtà del Casilino 900. Prima della partenza però, suo padre Simplon decise di narrargli la storia della loro famiglia a partire dal terribile parrajamos, il genocidio subito dai rom nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra mondiale, così come gli era stato riferito dai genitori Ofiter e Limpiana. Seicentomila furono i rom uccisi dalla follia nazista. La liberazione fu un attimo di bonaccia in un mare in tempesta. Con l’avvento di Ceauşescu al potere si profilò ben presto l’inizio di un nuovo difficile periodo: «Il passato dei rom poteva essere cancellato. Abitudini secolari potevano essere spogliate dei rituali e tutta una cultura sepolta dall’ondata proletaria e modernizzatrice». Per i rom significò la migrazione dalle campagne alle estreme periferie cittadine attirati dal miraggio di un posto di lavoro fisso.

Con un andatura meditativa, divagante e spezzata da scene commoventi e di cupa mestizia (Grifina, il Violinista, il pugile danzante, etc), Pretto si incammina fra le rovine di questi figli del vento la cui casa è il mondo e l’unico tetto da loro conosciuto è il cielo stellato che le loro donne interrogano nel tentativo di leggere il destino di un popolo, la cui natura pacifica non li ha fatti mai macchiare del sangue di una guerra semplicemente inutile per chi non ha una patria da difendere e dei confini da proteggere, condannati a vivere per sempre in «un limbo senza più radici» con la loro ferita profondamente patita per esperienza di uomini e cose.

(Sergio Pretto, Novecento rom, CartaCanta Editore, 2012, pp. 420, euro 18)

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