“O Verlaine!” di Jean Teulé

di / 24 maggio 2011

«De la musique avant toute chose […] / Et tout lo reste est littérature» teorizzava in una sua famosa poesia programmatica del 1874, Arte poetica, Paul Verlaine, erede di Baudeleire e maestro del Simbolismo. Così come la sua poesia rinunciava al discorso logico e si proponeva di «prends l’éloquence et tords-lui son cou!», ossia di “torcere il collo all’eloquenza” per farsi puro suono, così Verlaine abbandonò nella sua vita qualsiasi freno inibitore per darsi alle sfrenatezze e ai vizi peggiori. È il sommo poeta stesso a parlare nella sua prima raccolta, Poémes saturniens, di un gruppo di poeti nati sotto l’influenza maligna di Saturno. Affetti da malinconia cronica e irrequietezza, questi geni della poesia sono a tutti noti come “poeti maledetti”. E a dare tale definizione è sempre Verlaine nella raccolta di articoli e saggi del 1884, Poètes maudits, riferendosi a Rinbaud, Mallarmé, Corbière, Villiers de Isle Adam e a lui stesso sotto l’anagramma di Pauvre Lelian.

Proprio a questi irregolari della letteratura l’originale scrittore francese Jean Teulé ha dedicato una trilogia iniziata nel 2007 con Io, François Villon (Neri Pozza) e proseguita con O Verlaine! (Nutrimenti 2008, p. 304, Euro 17,00) e con Rainbow per Rimbaund. A O Verlaine!, la casa editrice romana Nutrimenti ha dato una veste grafica molto curata soprattutto per quanto riguarda la scelta dei caratteri, riportati nell’ultima pagina (dal Frutigen al Sabon creato nel 1965 da Jan Schichold), sia per quanto riguarda la copertina, brossurata in cartone Lito ambrata da 90 g, con illustrazioni che proseguono all’interno e bandelle su cui troviamo la Biografia del libro, scritta dall’autore nella prima, e quella di Teulé nell’altra. In tempi di e-book sicuramente sono idee come questa a rendere più difficile il distacco dal libro di carta.

Con O Verlaine!, Teulé ci regala un romanzo che è una biografia atipica. Senza cadere nella retorica o nell’elogio sperticato, ci presenta, attraverso i grandi occhi languidi e malinconici di un giovane contadino di Bèziers, Henri-Albert Cornuty, realmente esistito (ne sono una testimonianza una sua lettera e un suo ritratto fatto da Pablo Picasso), la figura del grande poeta francese con le sue debolezze, i suoi umori, i suoi deliri e i suoi scatti, ora di sublime dolcezza tradotta in versi, ora di inaudita violenza (giunse a minacciare la madre di morte e a sparare a Rimbaud).

Spinto dall’ammirazione cieca verso il suo idolo, il ragazzino giungerà a Parigi nell’inverno del 1895 per assistere agli ultimi giorni di vita del maestro, ridotto all’età di 51 anni povero e malato dall’alcol e dagli eccessi sessuali. Residente in un bordello di rue Descartes, conduceva infatti una esistenza al limite dell’abiezione. Henri-Albert radunerà intorno a Verlaine una combriccola, la “banda dei quattro”, composta dal grande ed eccentrico ritrattista Frédéric-Auguste Cazals, il mendicante Bibì la Miseria, inseparabile dal suo logoro cilindro sormontato da un’alta piuma di pavone e da un consunto cappotto da cerimonia, il neo avvocato Léon Deschamps e lui stesso, per proteggerlo da sfruttatori e prostitute in cerca dei suoi miseri guadagni. Questo compito che Conuty si prefigge lo porterà a diventare protagonista di fatti poco chiari ed efferati, sacrificando così la morale all’altare dell’arte.

In una prosa asciutta, efficace, evocativa e intensa come l’arsenico o “fata verde” degli artisti bohémien, Jean Teulé compone un affresco affatto banale della Ville Lumière alla fine dell’800, con i suoi bassifondi e case di tolleranza, e del mondo intorno al poeta maledetto (accademici invidiosi e sprezzanti del moderno verso libero, magnaccia, prostitute rancorose, ma anche figure affascinanti come il critico decadente Tailhade e la sua compagna la Notte).

È una scrittura, quella dello scrittore transalpino, “visiva”, in cui si avverte il suo passato da fumettista: ogni breve capitoletto è un quadro staccato o meglio una vignetta in cui frammenti di disperazione quotidiana vengono trasfigurati dalla sua potente e spietata ironia.

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