“Pesci” di Evelina Santangelo

di / 11 maggio 2012

Pesci, della scrittrice siciliana Evelina Santangelo (:due punti edizioni, 2011), è un racconto e fa parte della curiosa collana  Zoo ||| Scritture animali, collana “ecologica” di narrativa italiana – da notare la copertina del libro fatta in speciale elephant dung paper, “niente popò di meno che” sterco di elefante lavorato artigianalmente – diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini.

Siamo tutti convinti di quanto già di per sé il racconto costituisca una sorta di piccolo miracolo nel contesto del variegato mondo dello scrivere, denso come deve essere di tutti quegli ingredienti che in genere spingono il lettore a oltrepassare la dura soglia delle primissime righe che lo separano dalla lettura integrale di un libro: nelle sue poche pagine devono necessariamente concentrarsi in primis una breve storia ma convincente, a seguire significati, concetti, coesione, fantasia, tecnica. Pena la noia, la cattiva comprensione, l’incoerenza. Tutt’altro che semplice insomma.

In questo caso, sarà per la particolare sensibilità verso la natura, sarà per quel modus scribendi dell’autrice, qui e lì volutamente criptico, oppure per il tema, i pesci, più che un tema uno sfondo costante, il fil rouge del testo. Per uno di questi elementi insomma, o forse per tutti, il racconto della Santangelo convince.

«“Ecco qua”, mormorava infine  poggiandoli uno accanto all’altro sul legno. “Appena puzzano…”, le raccomandava con un tono fermo. “Le cose che mi fai fare…”, mormorava infine, scuotendo la testa. I capelli ancora incredibilmente neri. Non la lasciava finire: “Sì, sì”, diceva correndo fuori alla luce del sole. Ci voleva quella luce bianchissima, di calce, per capire la bellezza degli occhi dei pesci con le loro striature perlacee, cangianti che, a tratti, diventavano persino di un vago color arcobaleno».

Concentrata in sessanta piccole pagine una storia che parrebbe d’altri tempi, tempi andati, lontani, che odorano di fatiche fisiche, di mestieri quasi scomparsi, di miseria, di disperazione e di mare soprattutto. E invece la storia è drammaticamente dei nostri mesti giorni, quelli in cui ai giovani di qualche terra, o di tutte ormai, non è consentito sognare e costruirsi un futuro dignitoso, e tutto si racchiude nella speranza che un gommone arrivi a destinazione senza rovesciarsi. L’approdo, però, risulta una terra promessa che lascia troppo a desiderare e innesca violentissima la nostalgia verso la propria casa, nonostante tutto.

Nel racconto di una ragazzina, quasi donna ormai, i ricordi d’infanzia si mescolano ai fatti del presente, in cui le statuarie figure del suo passato paiono sbiadire, voltare le spalle a un tempo che parla un’altra lingua. Così la saggia nonna, dopo tanto fare, è paralizzata muta nel suo letto, un padre, uomo di mare da sempre, sospende il giudizio e se ne sta in silenzio più taciturno che mai e una madre rimane, speranzosa, ancorata ai versi di chi, morto, ha creduto nel risveglio: «Se un giorno il popolo vorrà vivere / il destino dovrà fargli strada».

Onnipresenti sono i pesci, quasi il feticcio di un’esistenza serena: ora cibo e vita ora invece il gingillo di una bimba sognatrice che gioca a vedere l’arcobaleno nei loro occhi iridescenti; dove fonte del duro lavoro quotidiano e dove invece il simbolo del progresso e della speranza dei giovani. Alla fine della sua storia però, nonostante tutta l’attenzione e la cura, anche il pesce finisce col puzzare e tutto termina con un grande mucchio di gente che, «…come aringhe-secche ammassate dentro i container… il pasto dei tonni», sfila distrutta davanti agli occhi avidi degli uomini dai «sorrisi imbalsamati».

«“Alzati e andiamo”, dice con la sua voce ferma di donna, mentre quello la guarda con la faccia di uno che sta solo aspettando una legnata in testa.
“Ovunque, tranne che qui”, aggiunge rispondendo al silenzio del cugino giovane non più così giovane».

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