“Piccola storia del corpo” di Paolo Di Paolo

di / 9 gennaio 2014

C’è qualcosa di borgesiano, nelle prime due parti di Piccola storia del corpo (Giulio Perrone Editore, 2013), il nuovo libro che Paolo Di Paolo divide con Alma Gattinoni e Giorgio Marchini; borgesiano, intendo, nel senso di quel possibile, sognato, «libro fatto di libri» che il gran vecchio bonaerense dalle pupille omericamente spente avrebbe di sicuro apprezzato. E, certo, più che degli umbratili, e un po’ cimiteriali spazi della Biblioteca di Babele, questo libro ha il sapore di una ben diversa, vitale capacità di coinvolgere, con i suoi richiami alle realtà corporee, quasi l’odorato, il tatto di chi legge; o più ancora, forse, la vista, con il suo apparato di foto, invitante per quanto monocromo (e giustamente, si direbbe: data per scontata la irriproducibilità dell’opera d’arte, le immagini si limitano a porsi come ausilii mnemonici a chi sfoglia le pagine).

Tuttavia già tracciando, nella prima parte, un itinerario ideale, svelto e allo stesso tempo brillante, fra i diversi atteggiamenti con cui l’uomo moderno si è posto nei confronti di questo suo silenzioso quanto ingombrante compagno di viaggio terreno (dell’altro, poco che se ne sappia, è certo almeno di no…), Di Paolo non fa che muoversi, spigliato, efficace, e con raffinata arte della citazione, fra altrettanti libri – tutti ottimamente richiamati, peraltro, nelle impeccabili note –, che se ne sono fatti espressione: si trattasse di intellettualistiche sublimazioni rinascimentali come quelle del Vesalio o di ingolosite celebrazionià la Zola, giù fino alla più moderna, sartriana nausée di fronte alla sua materiale meschinità.

Ma è nella seconda parte, in cui si restringe al solo ambito della creazione letteraria, che Di Paolo trasforma la sua indagine, un tantino notomistica, fra denti, capelli, organi sessuali ed estremità femminili o maschili che siano, in una felice scoperta: il corpo come “personaggio”.

Perché è il suo farsi significato, all’interno di una narrazione, quello che mettono in luce queste pagine: e non solo nelle fisionomie, quando vengono ritratte – magari con la «devozione alle cose» di Carlo Levi, pittore –, ma anche nei messaggi che esso manda, con la spudorata invadenza dei suoi appetiti, degli afrori dei suoi liquidi organici – le molte eiaculazioni di Moravia –, dei fetori delle sue secrezioni, in Savinio. Ed è il più delle volte a contatto col proprio corpo, che l’autore, quasi sempre come «personaggio che dice io», scopre la sua fallibilità, la sua difettività creaturale, che sia lo zoppicare di Zeno, la dolorante introspezione del protagonista di Debendetti, lo scendere nella malattia e nella sofferenza, verso l’ultima linea in Tabucchi o in Gina Lagorio. Ma molto più ampia di quanto possa far pensare questa sbrigativa rassegna di nomi è, nel libro, la scelta degli autori citati: che disegna un arco ricchissimo di evoluzione, da un certo preziosismo formale primo-Novecento, in Anna Banti o Landolfi (e l’immortale pezzo di bravura della gola squarciata di Liliana, in Gadda!), fino alle brutali semplificazioni lessicali e sintattiche degli ultimi decenni del Novecento, e del primo del secolo nuovo.

Infine, la terza parte, come si diceva opera di Alma Gattinoni e Giorgio Marchini: quella in cui dalla parola e dalla narrazione il corpo passa a farsi pretesto del colore, del segno. L’arte figurativa è, da sempre, molto più abituata della letteratura, alla presenza del corpo: tanto più, alla contemplazione – ora dolcemente, sensualmente idoleggiante, ora perfino aggressivamente dirompente di ogni perbenistica imposizione del pudore – della nudità di esso, femminile di preferenza, benché non manchino riferimenti a una virilità ora nostalgica di pagane floridezze (Colacicchi), quando non addirittura (Riefensthal) mitizzatrice di prevaricanti primavere hitleriane, ora (Bacon, Lucian Freud) tramutata in dolente cifra esistenziale.

In un rapido scorcio, assistiamo così al farsi del corpo, nell’età del realismo ottocentesco, richiamo quasi scandaloso agli aspetti meno accademici della sua realtà (e di quelli della società, nei suoi strati meno comme-il-faut); quindi, al volgere del Novecento, vittima straziata delle lacerazioni tremende del primo conflitto mondiale. Poi, ancora, ridursi a Urschrei di linee e colori nella pittura espressionista (Dix, Kirchner, Grosz, Kokoshka), farsi regno della più trionfale astrazione compositiva del Surrealismo. E scendere, infine, nell’ultimo Novecento, alle via via più audaci esperienze di un’avanguardia sempre spasmodicamente tesa a spiazzare le aspettative di chi guarda, ad assumere la pura, materica oggettività della sua presenza carnale, del gesto (Abramovič, Pane).

In definitiva, da tre diversi punti di vista, ma tutti ugualmente avvincenti, una carrellata di pungente originalità, da cui si esce più consapevoli – e più innamorati, insieme – della fragilità di questo nostro pugnello di vita.


(Paolo Di Paolo, Piccola storia del corpo, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 310, euro 16)

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