“Undici sogni neri” di Manuela Draeger (Antoine Volodine)

di / 12 agosto 2013

Nel futuro, un futuro distopico in cui il tempo appare sospeso, come si usa nelle trame del mito, e simultaneo, come si usa nella narrativa di certi psicotici, un gruppo di adolescenti orfani partecipa in ottobre alla sfilata dell’Orgoglio Bolscevico, il BolscioPride, celebrazione (ogni celebrazione è anche intimamente sfogo) insensata, testarda e bizzarra di un mondo gotico e grottesco popolato da umili e sfruttati, un mondo umbratile e denso di polveri pesanti, in cui l’afflato internazionalista dei primordi, quello della rivoluzione permanente, delle incantevoli speranze e delle nobili cause egualitariste, gioca ormai costantemente al ribasso dopo aver fatto definitivamente i conti (chissà quando) con l’animo dell’uomo nella sua più tetra possibilità di mutamento: da ciascuno secondo le proprie disgrazie, a ciascuno secondo le proprie angosce.

È in questo scenario, incubo apparentemente fuoriuscito dalle latebre più oscure delle notti messicane di un esule Trotsky, che Antoine Volodine, principale pseudonimo di un oscuro autore franco-russo nato tra il 1949 e il 1950, forte di innumerevoli personalità letterarie e di una sconfinata bibliografia, ambienta il suo recente romanzo Undici sogni neri (Edizioni Clichy, 2013), stavolta firmandolo come Manuela Draeger.

La dimensione immanente di una minaccia ininterrotta spadroneggia indiscussa nelle pagine del libro, un’esperienza di stato di assedio che pervade come una coltre densa di fuliggine l’intera narrazione, il vivere dei personaggi e l’incedere delle trame nell’attesa che qualcosa, appartenente a quelle illusioni belle del mondo antico, possa di nuovo emergere al cospetto degli oppressi. Qualcosa che possa definitivamente sconfiggere un nemico che non si fa mai vedere: il capitalismo, forse, o magari un’impalpabile e acefala Amministrazione totalitaria di gusto dürrenmattiano. Ma nulla di tutto ciò emerge, e le celebrazioni del BolscioPride, che in questo caso finiscono in tragedia, letteralmente in fumo e cenere, vedranno l’attesa dell’egualitarismo coronarsi soltanto nella dimensione fantastica di un gigantesco ed ecumenico incendio, di un disastro bellico più che termonucleare fatto di ordigni molli e inesorabili, in cui ogni sfruttato, ogni umile, ogni orfano nella fattispecie, si troverà protagonista del grande rogo: nell’esperienza momentanea come nella rimembranza del ricordo. E nel rogo ognuno sarà fuso agli altri, confluendo in un’unica paradossale personalità contemporanea che risponde a numerosi nomi propri (come lo stesso Volodine con i suoi pseudonimi?) e che è fatta di accenti di materia e di sfumature di colore irriconoscibili a noi lettori che popoliamo quest’altro mondo, quello che disgraziatamenteci è dato in sorte.

La fine di tutte le cose trascende in questo modo le regole comuni del tempo, sicché la memoria (ossia le memorie unite in postrema comunione) possa fondersi in un’attualità diffusa che bazzica i territori del sogno, che solca i sentieri del fantastico e che di conseguenza costeggia i lidi delle cose perenni: luoghi che difficilmente possono essere raccontanti soltanto con le nostre parole.

In Undici sogni neri Volodine gioca così con l’angoscia e con l’attesa (come d’altronde aveva già fatto in Scrittori, l’altro suo romanzo pubblicato in Italia, ancora da Clichy, ancora nel 2013), proseguendo il suo cammino in un mondo inquieto, un orbe strutturato come fosse un’onnipervasiva istituzione totale in cui la vita sembra essere essa stessa pena, condanna quotidiana per chi ha avuto la sventura di nascere sotto forma di carne, nervi e patimento tra i suoi simili; sventura che, fortunatamente, in un modo o nell’altro dovrà pur finire.


[Manuela Draeger (Antoine Volodine), Undici sogni neri, trad. di Federica Di Lella, Edizioni Clichy, 2013, pp. 208, euro15]

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