“Allacciate le cinture” di Ferzan Ozpetek

di / 7 marzo 2014

Allacciate le cinture è l’invito che Ferzan Ozpetek rivolge al suo pubblico sin dal titolo del suo nuovo film, il decimo della sua produzione, per affrontare sicuri le turbolenze che la vita incontra durante il suo tragitto.

2000, Lecce. Elena ha venticinque anni, lavora in un bar, vive con una zia eccentrica che va e viene e con la madre con cui condivide il dolore per la perdita prematura di un fratello. Ha il sogno di aprire un locale con l’amico omosessuale Fabio, un fidanzato ricco con cui sta da anni e un’apparente serenità. Un giorno alla fermata dell’autobus, sotto il diluvio, si imbatte in Antonio, un buzzurro razzista con cui si prende a male parole. Viene fuori che è il nuovo ragazzo della sua migliore amica. C’è un’attrazione proibita ma invincibile, nonostante l’evidente differenza. Si piacciono, si prendono, passano tredici anni, hanno dei figli, una casa, lei quel locale che sognava e la consapevolezza dei tradimenti continui del marito che sopporta con gran dignità. Lui è infantile e inaffidabile, ma si amano in qualche modo. Lo capiranno meglio quando Elena scoprirà di essere malata.

Uno dei temi classici del cinema di Ferzan Ozpetek è quello di un evento drammatico o luttuoso che arriva a sconvolgere un equilibrio, anche solo apparente, consolidato. È l’argomento centrale del recente Mine vaganti, seppur declinato su toni più leggeri, è il nucleo fondante di Le fate ignoranti e Saturno contro. In Allacciate le cinture, che segna il ritorno in sceneggiatura di Gianni Romoli dopo sette anni e tre film, anziché concentrarsi sulle conseguenze del dolore, Ozpetek si ferma nel momento dell’esplosione del dramma, in quel tempo grigio in cui non è dato sapere in che modo si evolverà il futuro, con o senza la persona amata. Come sempre nel suo cinema, il regista turco fa muovere attorno alla protagonista Kasia Smutniak una famiglia allargata di amici e parenti uniti nel bene e nel male. Come sempre nel suo cinema, Ozpetek alterna i registri, passando dalla tragedia alla commedia, macchiando di leggerezza i momenti di ascesa emotiva. A prevalere, però, è un andamento melodrammatico, una tensione costante che è inizialmente sessuale tra Elena e Antonio per caricarsi poi di enfasi sentimentali con lo sviluppo. Troppa tensione, a tratti, troppo melodramma. Perché per descrivere questo amore incomprensibile fatto di carne che si tocca e unisce al di là delle parole si arriva a sfiorare il ridicolo nella scena dell’amplesso silenzioso sul letto d’ospedale. L’amore di Elena e Antonio, apparentemente inconciliabili eppure simbiotici, è il centro della narrazione. Quando arriva il cancro tra di loro, lei si impegna seria e stabile, lui inizialmente dà di matto come un animale, poi si pone al suo fianco. Come già in Un giorno perfetto è il desiderio la forza che li tiene uniti, nonostante tutto, ma la struttura è scarsa, le dinamiche poco sviluppate, come i loro dialoghi, di spalle, consumando un minestrone freddo «che è buono comunque».

Se Kasia Smutniak dimostra capacità di mutamento e adattamento nell’attraversare tredici anni nella vita di una donna, perdendo peso e mostrandosi magra e fragile nella malattia, il quasi esordiente Francesco Arca nel ruolo di Antonio fatica a imporsi, dimostrando che il passaggio di personaggi televisivi al grande schermo non riesce sempre a Ozpetek. Impostato su una stereotipata idea di duro, Arca risulta, soprattutto nella prima parte, espressivo come uno dei pistoni con cui ha a che fare il suo personaggio meccanico. Recupera, un minimo, nella seconda parte, dimostrando dedizione all’idea attoriale inquartando il fisico muscoloso e aprendosi all’animalesca tenerezza che lo lega alla moglie.

Molto bene i ruoli minori, con Filippo Scicchitano perfetto e credibile nel ruolo dell’amico gay saggio ma possessivo, e la coppia Carla Signoris-Elena Sofia Ricci (di nuovo nel ruolo di zia stravagante dopo Mine vaganti) che garantisce l’apporto leggero con un rapporto basato su una fraterna malsopportazione.

Ozpetek gira con maestria, limitando i suoi celeberrimi ed enfatici primissimi piani e muovendosi con una consapevolezza nuova, come dimostra il piano sequenza iniziale nel bar.


(Allacciate le cinture, di Ferzan Ozpetek, 2014, drammatico, 110’)

 

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