“Breaking Bad” di Vince Gilligan

di / 9 gennaio 2013

Lo abbiamo celebrato nei recenti Flanerí Awards: un motivo ci sarà. Se riceve ogni anno incetta di premi ed elogi, e ormai tutti ne parlano e il bacino di spettatori si fa sempre più ampio, una spiegazione ragionevole ci deve essere. Se tra i fan-series più incalliti il suo nome è ormai fisso insieme ai giù cult Dexter, Walking Dead e Trono di Spade (solo per citare i più amati), delle giuste cause ci sono. Breaking Bad, a conclusione della quarta stagione, si è imposta come serie somma del momento.
Le ragioni del successo sono tante. Innanzitutto va dato plauso al creatore Vince Gilligan – già sceneggiatore di X-Files. È riuscito a calare una vicenda molto contemporanea e attuale – legata al contesto economicamente critico attraversato dall’America nel 2008 – e trasformarla in una avvincente sceneggiatura che ha davvero pochi pari nella storia della televisione: senza dire troppo, basta vedere il finale della seconda stagione, in cui l’epilogo svela tutti i misteriosi flash apparsi in ogni puntata.
Quindi, di cosa parla Breaking Bad (il cui titolo si riferisce alle rotture dei legami nei composti chimici, e non solo…)?

Presto detto: al centro della vicenda c’è Walter White. Encomiabile professore di chimica di scuola superiore nel Nuovo Messico, che per sbarcare il lunario lavora part-time in un autolavaggio. A casa l’attende la moglie Skyler e il figlio disabile Walter Jr. Nella prima puntata dello show gli viene diagnosticato un tumore ai polmoni in fase terminale con pochissime aspettative di vita. Di lì a poco assisterà a un’operazione di polizia insieme a Hank Schrader, marito della sorella di Skyler, agente della DEA. E a casa di chi avviene la retata della polizia? Ovviamente a casa di Jesse Pinkman, ex alunno di White e ora perso nel tunnel dello spaccio e della tossicodipendenza. Da questo momento le cose cambiano. Ecco la breaking bad, la brusca rottura. Infatti il termine, oltre ad essere usato in chimica, è una frase del gergo del sud degli Stati Uniti per dire che qualcuno sta lasciando la retta via per intraprendere dei traffici loschi e pericolosi. Walter White non sarà più uno stimato professore e dipendente, ma deciderà di entrare con Jesse nella produzione e nello smercio di metanfetamine, in modo da garantire con i cospicui introiti del traffico di droga un futuro dignitoso alla famiglia quando lui non ci sarà più. E il suo nome non sarà più Walter White, ma Heisenberg – citando il nome del fisico tedesco premio Nobel, fondatore della meccanica quantistica e dal controverso approccio e collaborazione con il regime nazista.

Dal breve accenno al plot si capisce subito quanto sia elevato il tasso d’empatia e di drammaticità. A rendere più coinvolgente il tutto, ci pensa l’interpretazione di Bryan Cranston, verso il quale sono finiti gli aggettivi per descrivere la bravura nell’impersonare WhiteHeisenberg. Famoso nel piccolo schermo per essere stato il papà di Malcolm nell’omonima serie di successo, qui l’attore lascia ogni verve istrionica e comica per abbandonarsi completamente al ruolo che gli ha dato la gloria. Sul suo volto segnato, passa la sofferenza di un padre di famiglia costretto a fare i conti con dilemmi più grandi di lui, con delle scelte difficili e con un futuro illegale e pericoloso visto come unica via possibile. In questo ambito Cranston si supera di stagione in stagione, mostrando come l’innocuo professore riesca poco a poco sia ad affrontare la malattia, sia a diventare uno dei nomi più temuti e spietati della criminalità americana. A supportarlo c’è l’altrettanto bravo Aaron Paul, alias Jesse Pinkman, anche lui “cuoco di cristalli”. Per non citare tutti gli altri spettacolari personaggi che di puntata in puntata popoleranno la serie: dall’avvocato salva-criminali Saul Goodman, al sicario Mike, fino ad uno dei più grandi villain mai apparsi in tv: Gustavo “Gus” Fring, che nella quarta stagione si mostrerà in tutto il suo malefico splendore.
Lo avete capito: il livello di Breaking Bad è alto. Ma la questione è ancora più semplice: basta infatti vederlo per capire di che capolavoro si tratti. Insomma: Kiss the cook.

 

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