“Sacro GRA” di Gianfranco Rosi

di / 24 settembre 2013

Ritirando il Leone d’Oro alla 70° Mostra del Cinema di Venezia per il suo Sacro GRA (distribuzione Officine Blu, durata 93’), Gianfranco Rosi ha guardato negli occhi Bernardo Bertolucci, presidente di giuria, e ha detto: «Il documentario è cinema». È così che la vittoria di Rosi ha compiuto la rivoluzione iniziata con la partecipazione in concorso ufficiale di due documentari (l’altro era The Unknown Known) per la prima volta nella storia della kermesse lagunare. Riuscendo a imporsi su Hayao Miyazaki, Xavier Dolan e Alexandros Avranas, i veri papabili, i veri sconfitti, il docu-film di Rosi ha stupito e conquistato il pubblico (un po’ meno una critica sempre troppo esigente), italiano e internazionale.

GRA, sigla per Grande Raccordo Anulare, nonché cognome del suo ideatore, l’ingegnere Eugenio Gra: non è soltanto la più grande lingua d’asfalto che abbraccia la Capitale per più di settanta chilometri, ma è lo specchio stesso di una vita che continua a scorrere inesorabile, e sempre più nella pura indifferenza, un mondo completo e a sé rispetto alla città che delimita. Il lungometraggio di Rosi non è assolutamente il “solito” documentario su Roma.

In fondo c’è ancora un briciolo di speranza e di umanità. Pochi mesi fa, Paolo Sorrentino usciva nelle sale cinematografiche con La grande bellezza. Ci ha presentato la Roma impaurita e sperduta, che non riconosce più se stessa. «Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile», diceva Jep Gambardella. Rosi, invece, lascia parlare le immagini che si susseguono stringate. Cattura quello che è sempre stato sotto i nostri occhi, ma di cui non ci accorgiamo poiché è una realtà a parte. Lungo il GRA c’è il mondo stesso, fatto di storie, sensazioni, mortificazioni, ironia e dignità.

Pensando alle Città invisibili di Italo Calvino filtrate attraverso lo sguardo attento e sensibile di Pasolini, Gianfranco Rosi ha graffiato lo schermo adattando un genere, il documentario, troppo spesso sottovalutato. Non c’è alcuna colonna sonora se non lo stridere di freni e sirene di ambulanza. Il rumore di sottofondo è quello del traffico. La pellicola scorre e non vi è alcun commento e alcun giudizio. Solo punti di vista. Le vite qui si sfiorano e si incrociano. C’è l’anguillaro, che ricorda tanto l’Albertone nazionale, il nobile piemontese e sua figlia, il ricordo di un passato mai del tutto sopito, il barelliere e il rapporto struggente con il lavoro e con la mamma ormai sopraffatta dalla senilità. Gente normale che ogni giorno ci supera sulla terza corsia del GRA. Qui, su questa striscia senza fine, ognuno di noi ha fatto del Grande Raccordo Anulare il proprio sentiero. Per dove?

Sacro GRA è un film aspro, come lo sono i vicoli stessi, troppo spesso bui, della periferia di una metropoli come Roma. C’è del romanticismo in tanta amarezza, un romanticismo intriso di valori esistenziali e di darwinismo sociale. Si percepisce la lotta per la sopravvivenza. Il pessimismo crepuscolare cattura lo spettatore, ormai conscio che, al di fuori del proprio quartiere, della propria vita monotona, c’è un mondo, mai così reale. È un documentario vivo che lascia spazio solo a una riflessione intima, dinnanzi al lassismo della società contemporanea.

La macchina da presa non ha alcuna pretesa, nè tanto meno un obiettivo. Rosi riesce a catturare, con sguardo neutro, la vita degli individui che prosegue imperterrita sulle carreggiate di quest’asse che il regista ha percorso centinaia di volte nei circa tre anni di riprese a bordo del suo mini-van. Un ottimo film, da vedere e da provare, Sacro GRA canta con maestria la poeticità dei tempi moderni, del cemento armato. È l’incontro lucido e perfetto tra immobilismo, lentezza, decadenza, in confronto a un universo in rivoluzione costante.

 

(Sacro GRA, di Gianfranco Rosi, 2013, documentario, 93’)

 

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