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“Il custode delle reliquie”. Intervista a Pier Francesco Liguori

di Elena Romanello / 5 maggio

Con lo pseudonimo di Vittorio L. Perrera l'antropologo pugliese Pier Francesco Liguori ha iniziato un'attività come romanziere, presso la casa editrice Ananke di Torino, con Il custode delle reliquie, giallo archeologico esoterico.

Come mai un antropologo decide di scrivere un romanzo?

L’essere antropologo non è stato fondamentale nella mia decisione di scrivere un romanzo, ha giocato di più la mia passione di sempre per le “storie ascoltate” prima, per lettura ed i libri poi. La mia principale fortuna è stata quella di avere dei genitori che, pur non appartenendo ad un ceto sociale elevato, consideravano la cultura un piacere e non solo una necessità, tanto che mia madre, sin da prima che iniziassi autonomamente a farlo, leggeva per me, oltre alle favole per bambini, anche brani scelti, e comprensibili per la mia età, tratti da Omero, da Virgilio, da Calvino, Ungaretti. La lettura ed i libri diventarono ben presto i miei compagni d’infanzia, visto che ero per di più figlio unico! Mi appassionai subito alle storie dei popoli antichi, all’archeologia ed ai miti, intrapresi gli studi di paletnologia ed antropologia fisica presso l’università di Firenze. Dicevano che ero una vera “promessa” ed io non faticavo a studiare, anzi, lo facevo con vero piacere ed iniziai ben presto a “pubblicare” articoli sulle riviste del settore, i professori mi stimavano, fui ammesso a 22 anni nell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria e nell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana e. Subito dopo nella Società Italiana di Antropologia e Etnologia… Poi, al termine degli studi, tutti i miei sogni s’infransero quando capii che solo pochissimi e neanche i migliori, avrebbero avuto l’opportunità di continuare nella ricerca. Il romanzo, la narrazione, così diversi dallo studio scientifico, sono arrivati soltanto ora, a cinquant’anni, come “esperimento terapeutico”, come direbbe il mio conterraneo Carmelo Bene, o come “cura della nostalgia” – che alla fine sono poi la stessa cosa – come ha osservato un mio vecchio amico, lo stesso che mi ha ispirato il personaggio di Vincenzo Cenni e che, come il personaggio del “Custode”, è realmente uno studioso di storia bizantina. Ho scritto anche per nostalgia. Nostalgia di Firenze, prima vera città in cui ho vissuto, nostalgia per la spensieratezza di quegli anni, nostalgia per le scoperte della vita quotidiana, nostalgia infine per la mia terra, che amavo e odiavo, che non vedevo l’ora di lasciare e di cui, oggi sento la lontananza. L’altro motivo però per cui ho scritto un romanzo – quel genere di romanzo – è che amo profondamente gli enigmi ed il mistero.

Come mai ha scelto di ambientare la storia in un passato recente e già remoto.

Sono costretto a fare una premessa. Vittorio L. Perrera è uno scrittore immaginario. E’ un personaggio del romanzo – il protagonista – che si è fatto scrittore e, come scrittore, ha personalità propria. Io pertanto non sono Vittorio L. Perrera! Tutto era nato dalla mia personale esigenza di non firmarmi col mio nome, poi le cose mi sono sfuggite di mano. Beffa fra le beffe, il mio Editore, che aveva la “necessità” di presentare al suo pubblico una faccia “vera”, mi ha “sbattuto” in quarta di copertina con tanto di nome e foto. Così Perrera, da pseudonimo, è diventato eteronimo. Si dice che il romanzo di un esordiente sia quasi sempre autobiografico… E’ vero anche nel mio caso, con la piccola, sostanziale differenza, che io non sono Perrera, bensì un altro dei personaggi del romanzo di cui mai viene citato il cognome. Io sono Piero. Proprio perché autobiografico, almeno in parte, il romanzo è ambientato agli inizi degli anni ’80, in origine la storia avrebbe dovuto iniziare nel 1978, anno in cui Piero si iscrisse all'università, ma il ’78 fu un anno “difficile”, troppo difficile per ambientarci un romanzo d’avventura in modo disinvolto, a cuor leggero. Basti pensare che Piero abitava in una cittadina di provincia – Maglie – che era la città natale di Aldo Moro, ed i mesi tra marzo e maggio del ’78 furono cruciali non solo per l’intero Paese, ma segnarono anche la storia della cittadina pugliese. L’avventura inizia perciò nel 1979. Quei primi anni ’80, così vicini e lontanissimi, furono cruciali per Piero. Il ragazzo si emancipava, lasciava in nido materno, scopriva la città. Nuovi amici, realtà fino ad allora sconosciute, l’omosessualità di Fredo e di Lukas con cui per la prima volta veniva messo a confronto, gli scontri sanguinosi nelle mense universitarie tra studenti iraniani ed irakeni, di cui però nel romanzo non si fa cenno, le manifestazioni di piazza, residui del ’77, il terrorismo, l’appartenenza politica, la nascita dell’edonismo reaganiano, l’oppressione delle strutture religiose che rimanevano insopportabili anche per un ragazzino di provincia senza grilli per la testa. L’amore per l’archeologia (nel romanzo egli studia archeologia classica, non antropologia), materia che ha probabilmente fin troppo idealizzato…

Ho voluto ambientare “Il custode delle reliquie” in quegli anni anche per non essere troppo schiavo della tecnologia di cui io stesso non riuscirei ora a fare a meno. Niente cellulari perciò, computer o web: ho preteso che i protagonisti andassero in biblioteca a consultare i testi dal vivo, che pagassero a caro prezzo ogni singola fotocopia, così come si faceva prima dell’avvento di internet, volevo che interagissero fisicamente tra di loro, usando al massimo un telefono a gettoni. Ho voluto poi che il lettore conoscesse anche le tecniche, ancora empiriche e pionieristiche, se le guardiamo “a posteriori”, con cui in quegli anni si affrontavano materie che oggi, dopo il bombardamento mediatico delle fictions televisive, chiameremmo “archeologia ed antropologia forensi”. E poi, negli anni ’80, ci furono davvero delle scoperte sensazionali, così poco conosciute dal grande pubblico, come  per esempio quella del santuario messapico della grotta Poesia, di cui parlo nel romanzo.

Nel suo libro si parla molto del mondo accademico, che può dirci al riguardo?

Preferirei definire “mondo scientifico”, quello che trovai a Firenze, e non “accademico” anche se, alla fine della giostra, fu il secondo a prevalere, ed è la stessa differenza di cui parlo proprio all’inizio del romanzo, quando distinguo gli “attaccacocci” ed i “preistorici”, normalmente “rossi” dall’elite dell’archeologia, i Winkelmann, gli storici dell’arte antica, molto più…”accademici”.

Quando arrivai a Firenze, comunque, non avevo alcun timore. Ero abituato a frequentare quei professoroni fin da quando mio padre era riuscito a farmi ammettere come volontario “spolvera ossa” nel museo paleontologico del paese. Avevo conosciuto dei veri mostri sacri dell’archeologia preistorica, della paleontologia e dell’antropologia (Paolo Graziosi, i coniugi Segre, Giuliano Cremonesi, Alda Vigliardi, Mara Guerri) e nei loro confronti mai nessun timore, solo rispetto. Studiavo relativamente poco perché amavo veramente quelle materie. A volte le lezioni si tenevano nei luoghi più improbabili ed in forma molto familiare, anche perché gli iscritti a quei seminari erano pochissimi: a volte eravamo seduti attorno ad un tavolo in una enorme e freddissima sala secentesca di Palazzo Nonfinito, a volte seduti nel salottino sfondato dello studio del prof, a volte addirittura in birreria. Qualche volta Messeri mi affidava gli studenti dell’Isef per introdurli all’antropometria. C’erano poi gli altri insegnamenti: le affollatissime aule di etruscologia di Camporeale e di archeologia greca e romana, di latino di La Penna, di filosofia di Garin, che era titolare a Pisa, ma passava ogni tanto da Firenze e le relativamente meno affollate aule di egittologia, per tornare all’intimità delle lezioni di paleontologia dei vertebrati in cui eravamo praticamente attaccati ai calzoni del prof Augusto Azzaroli che, a differenza di molti sordi, durante la lezione, sussurrava.

L’università, allora come adesso, soffriva di un’atavica malattia: la penuria di fondi.

Gli studenti di archeologia, paletnologia, antropologia, partecipavano agli scavi estivi obbligatori pagandosi le spese di tasca propria, proprio come ho raccontato nel romanzo. Buttava bene se un’amministrazione comunale sensibile alla cultura ti ospitava in una scuola, ed eri costretto comunque a dormire tra le cataste dei banchi. Quante volte i miei genitori hanno pagato i biglietti aerei per la Giordania… Poi, alla fine del corso di studi, e magari alla fine della specializzazione, ti ritrovi faccia a faccia con la cruda realtà, e così è successo anche a me. In una Università in cui regnavano – e regnano – i “baroni”, non appena il mio Prof , ahimè anzitempo, morì, si scatenò una vera guerra di successione. E così, avvenne, per analoga congiunzione astrale, anche ad antropologia, dove la spuntò il titolare della tessera P2 n. 797, che introdusse ai lavori i suoi apprendisti. Partecipai addirittura ad un concorso per tecnici, pur di restare nell’università. Titolo di studio richiesto: licenza media inferiore, ma mi dissero fin da subito che non avevo speranze. Mi restava l’alternativa di emigrare all’estero: mi proposero un’università in Medio Oriente e non ebbi il coraggio di accettare, anche a causa della mia idiosincrasia per lo studio delle lingue. Più tardi fu bandito un concorso per la direzione di un museo civico. Mi rifiutai di partecipare, per non dover diventare un impiegato comunale in balia delle decisioni dell’assessore di turno. L’insegnamento in una scuola media o in un ginnasio? Non ne avevo la stoffa! Dovetti così “cambiare mestiere”. Partecipai ad un concorso pubblico ed entrai in un Ente in cui fui costretto a gettarmi alle spalle ogni precedente esperienza. Continuai però a studiare e ad aggiornarmi finchè, solo da poco tempo, a cinquant’anni, ho ricominciato ad occuparmi di antropologia fisica nell’ambito delle indagini sui crimini di guerra.

Punto focale del suo romanzo sono gli enigmi di un passato che torna: è una cosa che la affascina?

Massimo Polidoro, in un suo testo di qualche anno fa, riprese la classificazione dei misteri e degli enigmi, confermandone la suddivisione in quattro tipologie.

“I misteri del I tipo sono quelli un tempo incomprensibili, ma attualmente completamente risolti dalla scienza. I misteri del II tipo sono quelli per i quali non esiste ancora una spiegazione definitiva ma per i quali è possibili avanzare congetture. I misteri del III tipo sono quelli la cui esistenza non è affatto certa e, infine, ci sono quelli del IV tipo, ovvero i "non misteri", cioè fatti assolutamente normali nei quali qualcuno ha voluto a tutti i costi individuare aspetti misteriosi”

I più intriganti  sono ovviamente quelli del II e del III tipo ed io personalmente preferisco i misteri del II tipo, per i quali, traendo spunto dalla scienza, dalla storia e dall’archeologia è possibile formulare ipotesi di soluzione. Non me la sento, sinceramente, di ripetere quanto spesso si è detto: che la gente cioè ama il mistero perché il materialismo, estremizzato, porta all’esatto opposto, al desiderio cioè di soprannaturale… Non sono un sociologo.  La ricerca della verità, ne sono convinto,è un cammino lungo e faticoso e tale fatica è sicuramente ripagata dal piacere intellettuale della scoperta.C’è forse un’ultima “categoria”, formata da quelli che amano l’enigma in quanto tale, coloro che sono convinti, per esempio, dell’inesistenza dei fantasmi, ma che del pari amano le storie di fantasmi. Io, per esempio, ho sempre adorato i vecchi sceneggiati degli anni ’70: “Il segno del comando”, “Ritratto di donna velata”, “Il fauno di marmo”… 

Quali sono i suoi prossimi progetti?

Ho appena finito un nuovo lavoro, ambientato nel 1990, a dieci anni di distanza dal “Custode” perciò, e che vede all’opera alcuni dei personaggi già conosciuti, ma anche nuovi, impegnati nella soluzione di un nuovo enigma, forse più “raccapricciante” e “misterioso” del precedente. Un romanzo in cui spero di aver “aggiustato il tiro”, meno scarno ed “accademico”.Anche questa volta, così come nel “Custode delle reliquie” ho riportato alla luce pagine di storia quasi sconosciute, di un’epoca però un po’ più vicina a noi.