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Educazione siberiana

di Chiara Gulino / 14 giugno

Un cono di luce proveniente da una fonte nascosta alla vista illumina il tatuaggio “sofferto” dall’uomo il cui volto di profilo è lasciato invece in penombra. Il suo significato? Non chiedetelo.
Nella tradizione criminale siberiana tradurre in parole e spiegare il codice cifrato dei tatuaggi è ritenuto disonesto. Una vita scritta su un corpo non ha bisogno di parole. Pochi lo sanno leggere.
Le singole immagini assumono un diverso significato se messe in relazione fra loro e a seconda della parte del corpo che ricoprono. Si inizia a dodici anni. Schiena e petto sono istoriate per ultime dopo i cinquant’anni. I fatti che raccontano devono essere veri frammenti di vita: «Come si dice in Siberia, i tatuaggi bisogna “soffrirli”. Dopo aver vissuto qualcosa di particolare, lo si racconta tramite il tatuaggio come in una specie di diario.». Il tatuatore infatti è una sorta di sacerdote al quale ci si confessa.
Il ritratto fortemente evocatico è quello che compare sulla copertina del romanzo d’esordio di Nicolai Lilin, Educazione siberiana (Einaudi 2009, pp.349, Euro 20,00), da cui, a settembre, sarà tratto un film per la regia di Gabriele Salvatores.
Lilin, soprannominato Kolima, è un discendente degli Urca siberiani, i “criminali onesti”, leggendari e antichi guerrieri della Taiga, deportati negli anni ’30 del ‘900 da Stalin in Transnistria, regione al confine fra Moldavia e Ucraina, autoproclamatasi indipendente nel 1990 dopo la caduta del regine sovietico, ma non riconosciuta da nessuno stato.
È qui che Lilin è nato nel febbraio del 1980 ed è stato svezzato con i valori della comunità criminale siberiana dai “nonni”, ossia le massime autorità del mondo crudo, gelido, spigoloso e a noi ignoto degli Urca.
“Educazione siberiana” erano detti i ragazzi del quartiere Fiume Basso della città di Bender, di cui scopriamo, a mano a mano che la narrazione avanza e l’ottica dell’adolescente Nicolai si allarga, il crogiolo multietnico: russi, ucraini, siberiani, armeni, georgiani ed ebrei.
La legge criminale siberiana predicava il disprezzo del denaro, considerato qualcosa di sporco, del comunismo e dell’America e il rispetto dei deboli, donne, bambini e disabili, i “Voluti da Dio”, persone sacre, messaggeri del Signore, di cui Lilin parla con grande empatia (vedi il capitolo intitolato Kjuša). Non rientravano fra gli esseri viventi da rispettare «i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano persone semplici». Nella cultura criminale siberiana non si chiede mai qualcosa direttamente. Gli anziani hanno deposto le armi e allevano colombi. Esistono solenni riti come quello del čifrin, il tè molto forte dei fuorilegge, bevuto in un grande bicchiere di ferro o d’argento secondo un preciso rituale. Non si stupra, non si fanno estorsioni né si pratica l’usura. Si fanno traffici illeciti, rapine e omicidi ma solo motivati: «Nella comunità siberiana s’impara ad uccidere da piccoli. La nostra filosofia di vita ha un rapporto stretto con la morte, ai bambini viene insegnato che il rischio e la morte sono cose legate all’esistenza e quindi togliere la vita a qualcuno o morire è una cosa normale, se c’è un motivo valido». Per questo a sei anni, gli occhi del piccolo Nicolai si illuminano di meraviglia e gioia non di fronte a trenini o videogiochi, ma alla “picca”, la storica arma dei criminali siberiani, un coltello a scatto con una lama lunga e sottile legato a usanze e cerimonie, ricevuta in dono da una autorità appena uscita di galera. Le armi sono oggetti santi come le icone o la croce siberiana.
La narrazione di Lilin cerca di fissare per iscritto una tradizione trasmessa per secoli oralmente che con il tramonto di quella civiltà rischiava di sparire per sempre. Scene cruente di risse fra bande rivali, accoltellamenti e sparatorie, violenze sessuali nelle carceri minorili e altre atrocità sono spezzate ogni tanto da momenti di autoironia e tragica comicità, specialmente quando l’episodio ha tra gli attori il suo maldestro e un po’ suonato Mel. I vari capitoli sono un andare avanti e indietro lungo il filo della memoria, in ambienti e situazioni che l’autore ha vissuto o conosciuto per sentito dire.
Mentre le parole si succedono l’una dietro l’altra, la mente si smarrisce. Non sai più distinguere ciò che è legale da ciò che è illegale, chi sono i buoni e chi i cattivi, quale sia la vera giustizia, se è vero che i metodi usati dalla polizia e i militari sovietici verso i civili non erano meno aberranti, chi le persone oneste e chi i veri disonesti. Sono regole, quelle degli Urca siberiani, che affondano le radici in una profonda, anche se discutibile per noi occidentali, moralità: «Non è il crimine la nostra forza ma il consenso ed il bene che la gente ci vuole», dice nonno Kuzja all’allievo Nicolai.
Le pagine più belle sono sicuramente le tante digressioni che Lilin fa sulle storie dei personaggi che incontra nelle sue scorribande cittadine, alcuni vere e proprie figure epiche, come il kol’šik (“pungitore”) che lo inizia a dodici anni all’antica arte del tatuaggio siberiano eseguito con le bacchette e non con la macchina elettrica.
Pur se inciampa a volte in qualche asperità ed errore grammaticale, la lingua di questo scrittore, che ha scelto la nostra per raccontare la sua autobiografia dalla nascita fino all’arruolamento coatto, a diciotto anni, tra i sabotatori dell’esercito russo nella guerra in Cecenia (argomento del nuovo e secondo romanzo Caduta libera), ha una grande efficacia comunicativa. Una lingua “onesta”, spesso scarna e diretta con sfumature proprie della voce narrante. È in questo italiano che il siberiano Nicolai Lilin detto Kolima ha voluto far conoscere una civiltà ormai annientata, non dal regime comunista, ma dal governo della Russia democratica e dal capitalismo di stato.