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Cinema

“I primi della lista” di Roan Johnson

di Nicoletta La Terra / 5 dicembre

 

Durante gli anni universitari, a Pisa, mi capitava spesso d’incrociare in un baretto di piazza Dante, all’ora del caffè dopo pranzo, o la sera in qualche locale all’aperto, un signore di mezz’età, barbuto, che andava in giro a chiedere l’elemosina in cambio della sua voce e della sua chitarra. Si vantava di essere stato grande amico di De André e addirittura di aver scritto alcune delle note ballate che hanno reso celebre il cantautore genovese. E così si posizionava tra i ragazzi che quasi lo ignoravano e con il suo bel vocione baritonale intonava con grazia da menestrello un repertorio anni ‘70 misto di tristi ballate e canzoni rivoluzionarie. La maggior parte dei presenti lo calunniava, lo stuzzicava con battutacce sulle sue presunte amicizie famose e sui suoi meriti cantautorali. Io me ne stavo lì in disparte ad ascoltarlo, perché fosse vero o no quello che raccontava, la sua voce e la sua figura tutta sprigionavano un fascino d’altri tempi, di quei tempi in cui a Pisa e nell’Italia intera si respirava violenta l’aria della rivoluzione e della lotta politica e civile. Solo oggi, a distanza di tanti anni, l’identità e la storia di quell’uomo mi sono state svelate, cogliendomi completamente di sorpresa, dal gustoso esordio cinematografico di Roan Johnson, I primi della listaIl menestrello si chiama Pino Masi e a suo tempo è stato davvero un cantautore di qualche notorietà: nel film di Johnson ci viene narrata una divertente avventura di cui si rese protagonista insieme ad altri due “compagni” pisani.

Primo giugno 1970. Pino Masi, Fabio Gismondi e Renzo Lulli, improvvisano una rocambolesca fuga da Pisa, in seguito alla notizia, ancora ufficiosa, di un imminente colpo di stato di matrice neofascista. Facendo parte della cosiddetta sinistra extraparlamentare, i tre giovani pisani temono di essere “i primi della lista” tra quanti, nemici dell’imminente regime, verranno sicuramente rastrellati senza troppe cerimonie. Fomentati dalla paura di essere arrestati e magari pure torturati, Masi, Gismondi e Lulli saltano sulla macchina di quest’ultimo dando vita a una sorta di viaggio della speranza alla ricerca di asilo politico in un paese straniero, che li porterà in un carcere oltre il confine, tra Italia e Austria.

Roan Johnson, coadiuvato dallo stesso Lulli che ha scritto il soggetto del film, parte da una piccola storia un po’ stramba e un po’ romanzesca per raccontare la fragilità e l’inadeguatezza di un’intera generazione: quella degli anni delle lotte studentesche e del terrorismo di piazza. Lontani dai cortei e dalle molotov, dalle barricate e dai comizi, dalle aspre battaglie in prima linea, lontani dall’azione, i giovani “compagni” che ritrae altro non sono che una variegata moltitudine spaurita e paranoica, inconsapevole dell’oggi e del domani, priva di risposte certe e abitatrice di un universo sospeso dove, a ogni minimo battito d’ali, si attende la burrasca. Masi, Gismondi e Lulli sono la lente attraverso cui osserviamo questa generazione così lontana – eppure così vicina alla nostra nei sogni e nelle idee – della quale ci è sempre stata riportata un’immagine quasi mitica, intoccabile per via dell’importanza storica e sociale che ha avuto, e che con questo film ritorna a occupare lo spazio di tante singole individualità smarrite.

Johnson non si fa prendere la mano da inutili velleità autoriali, ma segue con la macchina da presa l’azione che si svolge con fare da cronista, comunicando efficacemente l’impressione che sia la storia a raccontarsi da sola. Il suo punto di vista è quasi trasparente, e lo spettatore gli si affida con la sensazione sempre più forte che i fatti ci vengano restituiti così come si svolsero.

Forse l’unica nota fuori registro sono gli sketch con i poliziotti di frontiera, rigorosamente provenienti dall’altro capo d’Italia, che appartengono a un umorismo più sguaiato di quello malinconico e salace che percorre il resto della storia. Un peccato veniale che si perdona senza difficoltà a un regista alle prese con la sua opera prima. Assolutamente da apprezzare, invece, e inusitato nel cinema italiano del reference system, la scelta di dirigere ben due attori al loro primo film in veste di protagonisti, Francesco Turbanti e Paolo Cioni, giovani promesse che si rivelano tra l’altro all’altezza del bravo e scafato Santamaria.