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Libri

“I pesci non chiudono gli occhi” di Erri De Luca

di Chiara Gulino / 6 dicembre

All’approssimarsi della vecchiaia si avverte inevitabilmente la necessità di fare i conti con la propria esistenza e di misurare la distanza che ci separa dai ricordi più remoti.
Un giubileo, ben cinquant’anni separano l’Erri De Luca di oggi dal bambino di dieci anni che decide di richiamare a sé nel suo ultimo libro, I pesci non chiudono gli occhi, edito da Feltrinelli.
Lo scrittore napoletano si tuffa di slancio in una regressione profonda che lo fa riemergere sulla spiaggia di Ischia (come in Tu, mio, 1998), in un’estate degli anni ’60 quando c’era chi, come il padre dell’autore, di origini americane, si recava negli Stati Uniti per inseguire il sogno americano, l’american dream. Il sogno del ragazzino Erri era allora quello di riuscire finalmente a liberarsi di quel corpo ancora infantile che a dieci anni viene avvertito come una zavorra rispetto alla testa che corre in avanti proiettandosi verso una adultità in nuce alimentata dalla lettura dei libri del padre:

«Avevo raggiunto i dieci anni, un groviglio d’infanzia ammutolita. Dieci anni era traguardo solenne, per la prima volta si scriveva l’età con doppia cifra. L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato delle altre estati rimescolato dentro e fuori».

L’inizio (1) e il nulla (0). Dieci. Poi serviranno altri 89 anni per poter aggiungere un altro zero.
In fondo l’attesa di crescere e l’attesa della fine della vita sono uguali e diverse. Sono, per chi crede, comunque il principio di un’altra esistenza.
A dieci anni crescere significa collegare «il nervo tra il dolore fuori e le mie fibre». Significa accorgersi, passando dal chiuso di una stanza della casa di città, in una Napoli del dopoguerra non certo a misura di bambino, agli orizzonti aperti di una solare località marinara, delle grida, le miserie e le ferocie degli altri. Significa non considerare più il verbo “amare” solo un ingrediente letterario stucchevole e scontato, ma cominciare a declinarlo nella vita concreta non più con i tempi e i modi libreschi. Detonatore della scoperta della potenza dell’amore è una ragazzina, di cui De Luca serba il ricordo ma non il nome, venuta dal Nord, amante dei romanzi gialli e degli animali e con un concetto di giustizia nuova, «attenta al caso singolo e che inventa su misura la sentenza, muove dalla misericordia per l’offeso, perciò riesce ad essere spietata». È sempre lei a provocare la gelosia di tre scugnizzi poco più grandi verso quel ragazzino pescatore introverso, taciturno e timido che non aspetta altro che qualcuno rompa quell’involucro opprimente dal quale far scaturire un corpo nuovo più al passo con il sentimento di sé che si fa prepotente. Sono ferite necessarie per ora solo fisiche.

La trama del romanzo è veramente esile ed essenziale, sublimata in una scrittura sempre in bilico tra prosa e poesia controbilanciata da un sostrato dialettale che dona immediatezza a un dettato semplice ed elementare. Il titolo, quasi fiabesco, I pesci non chiudono gli occhi, è tratto, come per quasi tutti i libri dell’autore napoletano, da una frase detta da qualcuno. In questo caso è la ragazzina che la dice al bambino, il quale la guarda con stupore, sgranando gli occhi e riempiendo le sue iridi del suo essere: proprio come i pesci non chiude mai gli occhi e quando lo farà sarà finito tutto. Ma questa è un’altra storia.