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Cinema

“Magic in the Moonlight” di Woody Allen

di Francesco Vannutelli / 2 dicembre

È dal 1991 che Woody Allen non salta una stagione cinematografica con un film di cui sia regista e sceneggiatore. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa del 1969 con Prendi i soldi e scappa, si è concesso quattro pause totali, due sole durate più di un anno (dal primo film fino al 1971 per l’opera seconda, Il dittatore dello stato libero di Bananas, poi tra il 1975 di Amore e guerra e il 1977 della svolta autoriale di Io & Annie). Dopo gli ottimi risultati di Blue Jasmine, che è valso l’Oscar a Cate Blanchett e la personale sedicesima nomination per la sceneggiatura originale, Woody Allen torna a distanza esatta di un anno con Magic in the Moonlight, nuova escursione europea, dopo i più recenti Midnight in Paris e l’atroce To Rome With Love, questa volta nella Costa Azzurra degli anni Venti.

Wei Ling Soo è il più grande illusionista vivente. I suoi spettacoli fanno il tutto esaurito da Londra a Berlino. Nessuno sa chi ci sia sotto i baffi posticci e il costume da mandarino. Il mago è in realtà Stanley Crawford, maestro della prestidigitazione, arrogante e insofferente alla creduloneria della gente, che conduce una battaglia personale contro i falsi medium e ogni forma di divinazione spirituale. È proprio per questa sua ostilità verso il magico che l’amico e collega Howard lo contatta per chiedergli un aiuto. Si tratta di raggiungere la Costa Azzurra e smascherare una giovane chiaroveggente, Sophie Baker, che si è piazzata a casa della famiglia Catledge e sta aggirando tutti con i suoi trucchi. Quando arriva in Francia sotto mentite spoglie, però, Stanley si trova a dover affrontare un livello di illusione a cui non era affatto preparato.

La magia, nelle sue diverse forme, è uno dei temi ricorrenti e classici del cinema di Woody Allen. Nel 1982 Diane Jacobs pubblicò il libro …But We Need the Eggs: The Magic of Woody Allen (il titolo è preso da questa barzelletta che chiude Io & Annie), e nel 2000 Allen ha dichiarato che la magia avrebbe potuto essere la sua strada, se non fossero successe altre cose (lo dice nell’ottimo libro-intervista realizzato da Eric Lax in più di trent’anni di incontri e pubblicata da Bompiani con il titolo Conversazioni su di me e tutto il resto). Sono successe altre cose, e Woody Allen non è diventato un mago, però la magia l’ha messa nei suoi film, praticamente ogni volta che ha potuto. Negli anni, elementi magici sono comparsi nell’episodio “Edipo relitto” del film collettivo New York Stories, in Alice, Ombre e nebbia, La maledizione dello scorpione di giada, Scoop, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, e in una moltitudine di altri piccoli riferimenti.

Con Magic in the Moonlight è la prima volta che la magia si guadagna il privilegio del titolo. In realtà, però, è solo un pretesto narrativo. A Woody Allen interessa di più approfondire maggiormente un altro tema classico del suo cinema per condurlo, però, verso conclusioni inedite.

Lo Stanley che Colin Firth confeziona con tutto il suo britannico stile è un uomo razionale che vive in un mondo razionale. Rifiuta ogni elemento di trascendenza o soprannaturale e si domanda anche se sia più ingiusto ingannare gli ingenui o essere così ingenui da cadere negli inganni.

Non c’è Dio nel suo mondo, non ce n’è bisogno. È un mondo in cui, in linea con Hegel, è reale solo ciò che è razionale. Il resto, ciò che non può essere provato, non esiste, anzi, va evitato. L’immenso, e tutto ciò che è superiore, per Stanley costituisce una minaccia alla finitezza dell’intelletto umano. Ogni dimensione pura, come la bellezza, è effimera e per tanto non necessaria. Ovviamente in un mondo del genere non c’è spazio per l’amore, la principale delle illusioni umane. Stanley ha un rapporto perfettamente funzionante con una donna con cui condivide razionalità e disincanto, un’anima gemella in un mondo in cui le anime non esistono.

È evidente che la prospettiva di Stanley, radicata sulle letture di Nietzsche e su un convinto ateismo, replica il punto di vista abituale di Woody Allen e quell’eco costante di Dostoevskij e Bergman che pone l’uomo nel mondo come essere immanente e solo. In Magic in the Moonlight, però, torna un romanticismo che non si vedeva nel cinema alleniano dai tempi dell’elenco delle cose per cui vale la pena vivere di Manhattan. Nell’incontro con la medium interpretata da Emma Stone, che già ci si affanna, con desolante originalità, a salutare come nuova musa di Woody Allen, Stanley cambia idea su tante cose, prima di tutto su se stesso.

Ammettendo la possibilità del magico, Stanley supera il nichilismo e accetta il conforto che può offrire l’ulteriore. Ovviamente, questa apertura allo spirituale si accompagna a un nuovo modo di intendere i sentimenti, non più sintesi razionale di simili, ma piuttosto attrazione di diversi, superando ogni forma di logica e matematica emotiva. In fondo, come dice la splendida zia Vanessa interpretata da Eileen Atkins, il mondo può anche essere privo di senso, ma è comunque innegabile che sia dotato di una certa magia.

Peccato che invece sia Magic in the Moonlight a perdere presto quella sua certa magia. Non mancano le battute, alcune anche notevoli e superiori alla media di Allen degli ultimi anni, e non c’è niente da eccepire sulla qualità della messa in scena complessiva, dai costumi di Sonia Grande, che sembrano usciti da un catalogo Prada d’epoca, alla fotografia di Darius Kohndji. Solo che Allen fatica a sviluppare la parte centrale, una volta che si è definito il ruolo dell’illusione negli equilibri generali.

Per riprendere un altro film sulla magia che ha avuto un certo successo, The Prestige di Christopher Nolan, i momenti di ogni illusione sono tre: la promessa, in cui viene mostrato qualcosa di ordinario che diventa oggetto del numero; la svolta, in cui quel qualcosa di ordinario viene trasformato in altro di straordinario; e il prestigio, che è il trucco vero e proprio, quello che strappa gli applausi. È nel momento della svolta che lo spettatore viene ingannato dal prestigiatore. A Woody Allen non riesce proprio la svolta, quando la cerca, e quello che rimane è solo il trascinarsi verso un’evidente conclusione che ha ben poco del prestigio.

(Magic in the Moonlight, di Woody Allen, 2014, commedia, 98’)

LA CRITICA - VOTO 7/10

Tra eleganza formale e dialoghi salaci, Woody Allen declina il suo cinema in una nuova forma continuando ad attingere dal suo repertorio abituale che prevede nichilismo e magia. Molto bravi gli interpreti, splendida la cornice anni Venti, ma a tratti a prevalere è la noia.