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Cinema

“Trash” di Stephen Daldry

di Francesco Vannutelli / 25 novembre

Vincitore del premio BNL del pubblico all’ultima edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma – che è in sostanza il premio al miglior film, in questa ultima edizione senza giuria di qualità –, Trash di Stephen Daldry racconta con occhi occidentali la vita di tre bambini di una favela brasiliana.

Raphael lavora in una discarica. Raccoglie quello che c’è da salvare dai rifiuti insieme a tante altre persone che vivono di quei pochi soldi che guadagnano ogni giorno. Trova un portafogli, una mattina, e nel portafogli una chiave, delle foto e un calendario con l’immagine di San Francesco con alcuni numeri segnati. Non fa neanche in tempo a raccontarlo al suo amico Gardo che arriva la polizia. Cercano il portafogli, sono disposti a pagare. Raphael però non si fida, e fa bene, perché quei numeri e la chiave possono portare a qualcosa che un politico potente e corrotto vuole e a tutti i costi. Raphael decide che la cosa più giusta da fare sia capire cosa apre quella chiave, senza fidarsi della polizia. Lo aiutano Gardo e Gabriel, detto Rato, che conosce la città e tutte le sue scorciatoie.

C’è un romanzo per bambini con lo stesso titolo, scritto da Andy Mulligan, dietro Trash. Poi c’è la sceneggiatura di Richard Curtis, storico autore del Mr. Bean di Rowan Atkinson e firma di alcune delle commedie britanniche di maggior successo degli ultimi vent’anni (Quattro matrimoni e un funerale, Bridget Jones, Notting Hill, tra gli altri), e infine la regia di Stephen Daldry, che, dall’esordio con Billy Elliot fino al recente Molto forte, incredibilmente vicino, ha dimostrato sempre un’attenzione particolare ai protagonisti adolescenti che diventano adulti per esigenza, per difficoltà. Ci sarebbe anche un livello ulteriore, quello portato dalla produzione esecutiva di Fernando Meirelles e dalla troupe brasiliana che ha affiancato la squadra europea, ma è quello che si nota di meno.

Perché del regista di City of God non si vede nessuna impronta, nessun contributo di spessore, nessuna testimonianza realistica della vita di discarica. Giusto un alone sul piano estetico, nei colori e nella velocità di alcune sequenze. Sembra quasi che il nome sia stato prestato per dare un certificato di credibilità alla descrizione della favela, come a dire che se c’è Meirelles, da qualche parte nella produzione, allora lo sguardo è autentico, non travisato da una prospettiva occidentale. Non basta. Perché molto più che a City of God, Trash finisce per assomigliare a una versione soft e brasiliana di The Millionaire. Si era parlato, per il film di Danny Boyle, di neocolonialismo culturale per la pretesa di raccontare una storia distante, nella geografia e nella cultura, ponendola in una prospettiva rispondente al gusto occidentale. Boyle c’era riuscito a rendere credibile il suo sguardo sul degrado indiano, unendo la crudezza della descrizione con il conforto del lieto fine. Un equilibrio preciso, che infatti era valso otto premi Oscar (e Golden Globes, e Bafta, e tanti altri riconoscimenti). In Trash, invece, Daldry tralascia in fretta ogni connotato ulteriore e si limita a seguire le avventure dei tre bambini. Per i suoi protagonisti tutto è facile: capire, spostarsi, risolvere, con i poliziotti cattivi che arrivano sempre un momento dopo che loro sono scappati. C’è l’inevitabile idealizzazione della miseria, per cui i poveri sono comunque buoni, si aiutano e si vogliono bene, e se rubano lo fanno solo perché sono costretti e tanto alla fine restituiscono, mentre il potere è corrotto e malvagio, spietato ma cretino, perché non riesce neanche a catturare tre bambini che si infiltrano nelle case e nelle prigioni. C’è un’innocenza impossibile, che è lontana da City of God, sempre pura, capace di mantenersi nonostante la fame e la miseria.

Chiaramente ci sono anche elementi validi, a partire dai tre protagonisti, bravissimi e naturali, selezionati tra centinaia di autentici meninos de rua. C’è la velocità del montaggio e delle scene d’azione, e c’è la descrizione semplice e non sensazionalistica della corruzione e del declino di un paese che si è rovinato (almeno nei suoi strati più deteriori) per ospitare un Mondiale di calcio e un’Olimpiade (la prossima, quella del 2016).

Tutto, però, sembra confezionato per stupire l’occhio occidentale, per far sentire a posto la coscienza di chi guarda la miseria attraverso la lente privilegiata di un cinema colorato e buonista.

(Trash, di Stephen Daldry, 2014, avventura, 114’)