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Libri

“Da quando Ines è andata a vivere in città”
di Dario Accolla

di Davide Di Poce / 26 novembre

«Era il modo più veloce di narrare il mondo. Non il più semplice. Solo il più veloce. Laddove servivano parole, in un foglio di carta, lui giocava con l’esposizione, le angolature, i giochi di luce»: queste parole, che si riferiscono al personaggio del fotografo in Da quando Ines è andata a vivere in città (Zona, 2014), libro d’esordio di Dario Accolla, descrivono bene lo stile narrativo di questo autore che si affaccia sulla scena letteraria. In realtà Da quando Ines è andata a vivere in città è la terza opera di Dario Accolla ma è la sua prima prova narrativa. Accolla ha già pubblicato il saggio I gay stanno tutti a sinistra – Omosessualità, politica, società (Aracne, 2012) e, con Andrea Contieri, la raccolta Mario Mieli trent’anni dopo. Inoltre cura un blog personale, Elfobruno e un blog su Il Fatto Quotidiano.

I racconti che costruiscono Da quando Ines è andata a vivere in città sono scatti di un fotografo sapiente, ritratti di facce comuni che si rivelano, sotto la lente d’ingrandimento dello scrittore, di una espressività e intensità straordinarie. L’effetto esplosivo – il senso di immediatezza – è quello di una fotografia, eppure è ottenuto con il clic della parola, con il crepitio di questa antica polaroid. Così possiamo provare a delineare la cifra di uno stile che fa emergere la voce inconfondibile di Dario Accolla. Ciò che colpisce è quella sensazione di precipitare che si prova davanti a certe fotografie, a certi sguardi immortalati. Penso, per esempio, agli occhi verdi della ragazza afghana, fotografata da Steve Mc Curry; penso anche agli occhi della Gioconda. Ecco, il libro di Accolla è una galleria di sguardi. Infatti gli occhi hanno un ruolo quasi da protagonista, vista l’insistenza con cui ricorrono le descrizioni di sguardi. L’autore descrive i suoi personaggi attraverso il loro sguardo: «occhi buoni e profondi», «occhi verdi» – e poi, ancora, con una spiccata tendenza espressionistica – «occhi di clorofilla», «occhi di burrasca marina». Gli occhi paiono una vera e propria ossessione dell’autore e, classicamente, un mezzo di conoscenza dell’altro.

Le storie di Dario Accolla accolgono tutto il mondo che esiste. Nell’opera di Accolla c’è Giorgio che vive un amore clandestino con un fotografo misterioso: i loro incontri notturni, consumati di tanto in tanto, nel silenzio, al suono dei calici di vino che si toccano – lo stesso suono delle labbra che si baciano – un suono così bello e così fragile. Invece Laura, che non riesce più a dormire a causa di Marica, e nonostante ciò accompagnerà Carmen (che ha vissuto l’esperienza del cambiamento sulle sue carni) a sostenere uno degli esami più duri della sua vita e riuscirà ad attraversare il corridoio della chiesa, ferita e fiera. Ferita come Ines, personaggio che dà il titolo alla raccolta, madre alla ricerca del motivo che ha spinto il figlio a suicidarsi. Commovente è l’amore che prova nei confronti di Alessandro il protagonista di “Forse nevicherà a Roma”: un sentimento che trova la forza di manifestarsi una sera, per caso, dopo una cena; una manifestazione splendidamente raccontata da Accolla, con limpidezza ma senza volgarità, con «gentilezza letteraria». Sull’ampia riflessione sull’amore che attraversa tutto il libro, si stagliano Roma (dove l’autore vive e lavora) e la Sicilia (dove è nato), con i suoi odori e i suoi accenti («Laura e Giulio mi prenderanno in giro, perché quando dico “a pezzetti” si sente di più l’accento siciliano») e le «vecchie siciliane senza tempo, uguali alle rocce dei camini di Goreme» e «la poesia dell’origano». Ne “Il sorriso della Gioconda” e “Il grappolo” Accolla si misura con i toni del grottesco e del comico, e muove una critica garbata a certe ingiuste credenze della Chiesa. “Il grappolo”, favola di gusto boccaccesco, è il racconto in cui l’autore mostra il lato genuinamente umano di suor Anita e di suor Mariana. Il conflitto tra le due suore si genera a causa di un grappolo d’uva, un semplice grappolo d’uva che dal pergolato pende enfio, rotondo, levigato e che asseta. Questo grappolo che scatena inaspettatamente e con tanta forza i desideri delle due suore è molto di più di un grappolo d’uva: è un simbolo fallico. Basta osservare la descrizione che ci offre l’autore e pensare che nella poesia omoerotica del Novecento ricorre questa metafora; ad esempio, Libero De Libero in una sua poesia omoerotica del 1971, scrive: «Il grappolo che m’offri gonfio d’uva». Così nel racconto la patina del comico si spacca e il discorso diventa boccaccescamente allegorico.

“Il grappolo” è preceduto da una definizione, “Ghost track”, e vuol essere, appunto, un “a parte”, una storia di una tonalità diversa rispetto alle altre. Tutto il libro è infatti costruito come un disco musicale: ogni racconto (tranne “Il grappolo”, appunto) è associato a un brano musicale, che sta in apertura come una citazione. Perché una articolazione del genere? Si tratta della colonna sonora della vita dell’autore? Se sì, visto il legame intrinseco che corre tra citazione e racconto, possiamo estendere questa ipotesi ai racconti stessi? Non sappiamo quanto ci sia di Dario in queste storie, ma certamente questa struttura testimonia lo stretto legame che hanno per l’autore letteratura e vita. Forse anche per lui si può parlare di «dissoluzione della letteratura nella vita», per usare un’espressione che Gennaro Savarese trovò per La giovinezza di Francesco De Sanctis. Non sappiamo quanto ci sia di Dario in queste storie e non ci interessa. Ciò che conta è che l’autore ci offre una raccolta di racconti, – brani musicali, scatti di fotografia – in cui, tra le tante facce che scorrono al di là del finestrino del tram, ci accorgiamo di riconoscere, riflessa, la nostra.

(Dario Accolla, Da quando Ines è andata a vivere in città, Zona, 2014, pp. 108, euro 12)