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“L’arte di andare a passeggio”
di Franz Hessel

di Chiara Gulino / 11 novembre

«In questi “tempi austeri” raccomando caldamente di andare a passeggio. Non è affatto un piacere specificamente borghese e capitalistico. È anzi un tesoro dei poveri, quasi un loro privilegio».

L’arte di andare a passeggio (Elliot, 2014) di Franz Hessel, padre di Stephane, l’autore del recente pamphlet Indignatevi, così si rivolgeva ai suoi contemporanei.

Se la rivoluzione industriale e l’avvento del capitalismo hanno tolto l’aura all’artista, è pur vero che hanno partorito una delle figure letterarie più affascinanti, portato dei rivolgimenti economici e sociali, il flâneur.

Tra le figure letterarie quella del flâneur è quella che si è distinta dall’Ottocento a oggi per la sua presenza obliqua, inclassificabile dal punto di vista sociale e metamorfica. Al flâneur, parola introdotta dal poeta decadente Charles Baudelaire nella seconda metà dell’Ottocento, è richiesto di immergersi nella metropoli e diventare come un «botanico del marciapiede». Al di là della pregiudiziale etichetta di perdigiorno, come reazione all’alienazione imperante il poeta si vedeva quasi costretto a rifugiarsi in una sorta di eutanasia emotiva che regalava giornate di pochi affanni e nessun altro pensiero. Gli era richiesto di girovagare senza meta e limiti di orari o impegni e osservare i comportamenti come un vero e proprio sociologo o antropologo. Il flâneur è dunque un tipo sociale nato in un determinato contesto e legato in particolar modo alla capitale francese.

L’arte di andare a passeggio è il risultato del bighellonare di Hessel in giro fra case, quartieri e bar che, fingendo di descrivere, orecchiare e registrare, trasfigura. La sua gente di Berlino o Parigi è un piccolo e anomalo microcosmo in implosione. Curiosi e modesti tipi umani, discrete presenze di un mondo indaffarato e mondano, strade e città sono così colti in trasformazione.

In queste sue brevi prose, dal linguaggio semplice e a volte dallo stile favolistico, non c’è intreccio, c’è solo erranza, considerazioni annotate con il lapis in una pausa tra un tempo e l’altro della sua lenta, incessante flânerie.

Figure secondarie e dimesse al limite del grottesco popolano l’immaginario poetico e narrativo hesseliano, ma il vero protagonista dei suoi racconti è il passante solitario.

Il flâneur di Hessel, osservatore critico e distaccato della scena urbana, tenta di decifrare questo spettacolo, mai però compromettendosi e contaminandosi con esso. La sua passeggiata senza meta si oppone al flusso incessante quasi ipnotico della folla. E neppure tenta di dare un ordine al caotico labirinto della città moderna come invece cercava di fare l’amico Walter Benjamin, con cui tradurrà in tedesco due volumi della Recherche di Proust.

Incantano la grazia e il tocco felice e disinvolto di alcune pagine. Se il racconto sta al romanzo come la fotografia a un film, lo stile di questi fotogrammi narrativi fa di Hessel un illustre rappresentante dellakleine Form, ossia di quella prosa breve o minore, proveniente dal giornalismo, di carattere a volte filosofico di grande fortuna negli anni Venti, l’unico capace di raggelare il fluire ininterrotto di impressioni, percezioni del flâneur in folgoranti epifanie.

È però forse il pezzo lungo intitolato “Scuola di preparazione al giornalismo”, dal sottotitolo “Diario parigino”, il vero concentrato delle caratteristiche dell’arte di Hessel. Un ritorno a Parigi durante il primo dopoguerra, alla riscoperta di una città in parte mutata e con l’obbligo di un lavoro giornalistico dall’esito improbabile. Un viaggio nel corpo della capitale francese dettato dai ricordi del tempo che fu e dall’inesorabile impiccio di «dover guadagnar denaro».

“Scuola di preparazione al giornalismo. Diario parigino” si può considerare un manifesto di estetica del camminare metropolitano che coinvolge tutti i sensi, un’esperienza totale.

I testi provengono dalle raccolte Pasta leggermente colorata (1926) ovvio rimando alla leggerezza dei pezzi contenuti nel volume, Epilogo (1929), Esortazioni al piacere (1933). Chiude la raccolta l’ultima prosa pubblicata dallo scrittore prima di sparire definitivamente dalla scena culturale tedesca: “Il facchino di Baghdad” (1933).

Si colgono nella prosa hesseliana delle atmosfere oniriche e soffuse della tradizione favolistica romantica da Brentano a La Motte Fouqué a von Chamisso, agli incantesimi delle Mille e una notte, tanto che proprio l’episodio del Facchino di Baghdad suggella l’attività letteraria di Hessel e diviene un’allegoria della sua poetica, passando per certe forme della mitologia cristallina, essenziale e tascabile di Robert Walser. E una traccia di simili irrisolte premonizioni si ritrova pure in Robert Musil, quando descrive i cortili di Berlino o passa furtivamente in rassegna i caseggiati di Charlottenburg e il Tiergarten.

L’universo poetico di Hessel si compone così strada facendo di oggetti e personaggi proprio come chi, durante la sua passeggiata per la città, si ferma a comprare cianfrusaglie. Emblematica è la vetrina delle botteghe, simulacro della verità e vanità del mondo moderno.

Il solitario passante hesselliano assurge così, con la sua ribellione ai ritmi frenetici della metropoli e al pragmatismo imperante, a eroica figura, benché precaria, dei tempi moderni.

(Franz Hessel, L’arte di andare a passeggio, trad. di Enrico Venturelli, Elliot, 2014, pp. 243, euro 13,50)