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Musica

“Viet Cong” dei Viet Cong

di Mattia Pianezzi / 2 febbraio

Non è facile fare uscire il proprio esordio il 20 gennaio, e pensare già che sarà arduo ricordarlo alla fine dell’anno, quando si tirano le somme dei migliori e dei peggiori. Ai Viet Cong, che hanno appena firmato con la Jagjaguwar, non importa e pubblicano lo stesso il loro primo disco Viet Cong (2015).

C’è da dire che non si tratta proprio di un esordio: la storia che sta dietro i Viet Cong è più complessa. Gli Women, formazione indie rock lo-fi con all’attivo solo due album ma entrambi acclamati, si sciolgono nel 2010 dopo aver litigato su un palco. Nel 2012 il chitarrista Chistopher Reimer muore nel sonno. Il bassista Matt Flegel allora richiama il batterista Mike Wallace e due nuovi chitarristi che orbitano nell’ambiente musicale canadese di Calgary, Scott Munro e Daniel Christiansen: ecco i Viet Cong. Con gli Women hanno in comune mezza formazione, l’etichetta e parte del sound della band.

Forse il modo migliore per definire la musica dei Viet Cong è quello che ci hanno suggerito loro quando hanno detto di suonare “labyrinthine post-punk”. Il senso di chiusura e alienazione che Viet Cong provoca è notevole. Non sarebbe giusto definire i Viet Cong come Women 2 perché per tutto l’album si sente una volontà di cambiamento, una spinta in avanti (dal labirinto si dovrà pur trovare l’uscità, no?) mancante negli Women, che traghetta lontano dalle acque paludose del post-punk. Basta ascoltare il disco, che inizia con dei tom che sembrano provenire dal centro della terra, come se qualcuno voglia uscire, liberarsi.

Ad esempio già la terza traccia “March of Progress” contiente il cambiamento in sé, come se fosse un insieme di brevi traccie di un disco degli Women attaccate in lunghi percorsi sonori, in un evoluzione espressiva che tende ad aggregare piuttosto che a spezzettare. “Bunker Buster” è pienamente womenistica – se si può accettare questo aggettivo – per i primi due minuti, prima di aprirsi ad arpeggi ferrosi, dissonanti, stranianti. Il paradosso del suono dei Viet Cong è la sua parte drone, che arriva e sorprende, somma e ipnotizza. La parte paradossale sta nel fatto che ritmiche e sonorità così volutamente reiterate aggiungono invece un grande dinamismo espressivo ad un suono già codificato e teoricamente completo – quello del post-punk.

Prova finale, riassunto e summa è l’ultima traccia “Death” – e come chiudere meglio un album così? “Death” è nevrotica e si trasforma senza dimenticarsi, con una batteria martellante al quarto minuto, poi drone ipnotico, a sua volta mutato in colpi di chitarra distorta e disturbante reiterata ad intervalli spasmodici, prima di ritrasformarsi in un pezzo dal tempo rapido che si chiude su sé stesso e sulle urla rabbiose di Flegel accompagnate da altri colpi di chitarra.

La grandezza del disco dei Viet Cong sta in questo: l’innesto del nuovo sul vecchio portandosi dietro ciò che era necessario, senza esagerare nella
lunghezza, nel volume, in niente, ma andando avanti, tracciando il proprio sentiero. Già una delle cose migliori del 2015.

 

LA CRITICA - VOTO 7,5/10

Viet Cong ha dell’opera prima solo la forza impetuosa e il campo libero dai preconcetti. Questo è un disco consapevole e che suona benissimo, una delle prime sorprese musicali del 2015; ce ne ricorderemo a fine anno.