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Bellezza che è meraviglia più terrore

Lo splendido enigma di Amelia Rosselli

di Fabrizio Miliucci / 30 aprile

Riemergo in questi giorni da una lettura intensiva di Amelia Rosselli e come dopo ogni volta con un grande poeta, attraversato con un pezzetto di maturità in più, mi trovo in mano questa specie di cubo di Rubik irrisolvibile, l’enigma che ogni poeta è, e che Amelia sembra essere all’ennesima potenza: la sua esperienza biografica irripetibile, la condizione di estrema mobilità, gli incontri e le frequentazioni (Pasolini, il cugino Moravia, Bazlen) il labirinto delle lingue, la presenza ossessiva di un passato per lei privato e per tutti gli altri collettivo, dato che come noto il padre e lo zio furono assassinati nel 1937 in Francia per mano di sicari fascisti.

Ciò che rimane naturalmente è l’opera: assillo, ossessione, ma anche leggerezza e libera azione nei confronti della realtà. Stupiscono per pudore le molte (alcune bellissime) poesie d’amore, che descrivono un idillio sempre incrinato, praticamente impossibile, un amore infelice che è tale per autodeterminazione, sembrerebbe, una scrittura in cui prima arriva forte l’emozione, e dopo le parole organizzano un balbettio per spiegare-interpretare, tornando fatalmente a se stesse:

Se per l’ansia che avevo di te perdevo il portafogli
ad ogni angolo della strada; se per il male che mi ero
procacciata da me dalle tue braccia invisibile ad ogni
angolo della strada mi ero procacciata da me l’infelicità
di saperti lontano da me; se per la mia scontentezza e
generosità fallita io stendevo nella notte lunghi fili
di ragno alla tua porta (portone chiuso senza speranza
salvo per una trovata che non poteva sorgere dal mio cervello)
se per il tuo pudore e per la mia impazienza perdevo tutti
i rulli del controllo; se per le mie incertezze nel mezzo
di una ironia dolce e racchiusa io cercavo te anche nella
notte degli altri: era per meglio riconoscerti nel turbamento
degli altri: cavalli sospesi in aria su della strada che
non continua.
[da Variazioni belliche]

La ripetizione di versi e formule interne ipnotizzano la mente costruendo geometrie ed evocando geografie impossibili, metà simbolo e metà sogno, tutte insieme realtà. Soprattutto l’arco dei tre libri maggiori (Variazioni belliche 1964, Serie ospedaliera 1969, Documento 1976) portano attraverso un’evoluzione oltre la maturità, a partire dallo strabordare di parole e forme enigmatiche del primo libro, che mettevano in imbarazzo buona parte dell’intelligenza letteraria coeva, quando cioè Vittorini e Bertolucci, dai due lati del Novecento, non sapendo decifrare l’ironia-angoscia-spasmo di quei versi usciti fuori dal nulla, chiedevano chiarificazioni ulteriori o cedevano alla tentazione di ricollegarla comunque e un po’ sommariamente alla nostra tradizione.

Amelia Rosselli è stata uno splendido enigma anche e soprattutto per chi l’ha vista comparire sulla ribalta poetica degli anni Sessanta a sballare a maggior ragione ogni residuo valore. È a immaginarla in quei suoi anni che viene voglia di leggerla oggi come l’Omero ironico e inquietante della nostra storia recente. Ironia e inquietudine, appunto. Una delle cose che colpiscono di più quando si viene a prendere aria dopo l’apnea rosselliana è l’assoluta incertezza di quale luogo si sia attraversato per lunghe pagine spesso schizzate dalle linee di tre o quattro versi: se il gioco di un’autentica inventrice di pastiches iperintellettuali, sentenze contraddittorie e fulminanti, o la testimonianza di qualcosa d’altro. E anche laddove si possa arrivare alla conclusione di aver assistito (meglio, partecipato) all’una e all’altra cosa insieme, non si può mai determinare dove fosse il confine, quale rapporto intrattenessero queste due grandi sfere. In alcuni dei suoi luoghi più nitidi, Rosselli è poetessa delle perturbazioni lucide, addirittura liete.

La stessa tensione si sente anche in quelle che io considero (non provocatoriamente) fra le pagine più appassionanti della nostra letteratura, ovvero il terribile “Storia di una malattia”, racconto, confessione, richiesta di aiuto, sospeso in maniera vertiginosa e irrisolta (irrisolvibile) tra finzione e realtà interiore, narrazione intesa nel senso di affabulazione necessaria alla riuscita della comunicazione, documento di un’oggettività che forse è riduttivo attribuire seccamente alla «circostanzialità paranoide». Si tratta, in poche parole, di un resoconto agghiacciante in cui l’autrice denuncia le vessazioni e le persecuzioni che le sono rivolte dalla Cia e dai servizi segreti italiani, in un crescendo di tensione che coinvolge il degenerare della sua salute. Il testo uscì su Nuovi Argomenti nel 1977.

«Da dove partano certi attacchi a volte resta un mistero, o un mezzo mistero; ne seguono ipotesi a dozzine, alcune probabili altre scartabili. Ma in questo caso (di cui intendo dare descrizione) fu un medico ad avere il coraggio d’accusare e specificare l’“origine del male”. Questo nel 1975; le “noie” duravano dal 1969, il male si fece specifico nel 1971, “la malattia” si fece acuta nel 1974 e peggiorarono le condizioni nel 1976-77. Poi vi fu un brusco calo della febbre.
La malattia era la Cia, il suo corrosivo o punto d’attacco il Sid o l’Ufficio Politico o ambedue. La cura fu lunga e costosa, e vi sono ricadute […]».

Impossibile definire precisamente cosa ci troviamo di fronte, e soprattutto impossibile sapere quale sia lo statuto narrativo delle pagine in questione, quanto cioè i modi della fiction, favoriscano questa disperata, paradossale, grottesca, allarmante non-fiction. Resta tuttavia il fatto che se decidiamo di leggere queste poche pagine a monte della vicenda biografica dell’autrice, ci troveremo davanti un racconto che rappresenta un unicum, se non un monstrum, bellezza che è meraviglia più terrore.

A quasi vent’anni dalla sua scomparsa (si suicidò nel 1996) le poesie di Amelia Rosselli, anche a scapito della notevole intelligenza e produzione critica che si è esercitata sul caso, rimangono una testimonianza aperta, un nodo concettuale e verbale che sicuramente assolve ancora all’esigenza di una lettura vergine, preconcetta, libera da ogni forma di eruditismo. E le molte poesie che hanno al centro la lingua, quelle che si potrebbero stralciare dallo strabordante Documento, che parlano dei versi in sé, sono forse la testimonianza estrema e più significativa della vita stessa come poesia.

La passione mi divorò giustamente
la passione mi divise fortemente
la passione mi ricondusse saggiamente
io saggiamente mi ricondussi

alla passione saggistica, principiante
nell’oscuro bosco d’un noioso
dovere, e la passione che bruciava

nel sedere a tavola con i grandi
senza passione o volendola dimenticare

io che bruciavo di passione
estinta la passione nel bruciare

io che bruciavo di dolore, nel
vedere la passione così estinta.
Estinguere la passione bramosa!
Distinguere la passione dal

verbo bramare la passione estinta
estinguere tutto quel che è

estinguere tutto ciò che rima
con è: estinguere me, la passione

la passione fortemente bruciante
che si estinse da sé.

Estinguere la passione del sé!
Estinguere il verso che rima
da sé estinguere perfino me

estinguere tutte le rime in
“e”: forse vinse la passione
estinguendo la rima in “e”.
[da Documento]

 

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