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Libri

“L’insostenibile leggerezza dell’essere”
di Milan Kundera

Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa?

di Claudia Gifuni / 26 maggio

Milan Kundera non ha alcuna esitazione, è la Praga del 1968 che deve accogliere la sua narrazione. Leggera e indolente cornice spaziale non può sottrarsi all’insolubile dualismo degli opposti che permea per intero L’insostenibile leggerezza dell’essere, divenendo così essa stessa un personaggio da tratteggiare nella sua intima complessità.

Il ruolo di complice discreto delle vite di Tomáŝ e Tereza non è che una breve parentesi interrotta bruscamente dal precipitare degli eventi: l’arresto di Dubćek, leader dell’ala innovatrice del partito comunista; l’occupazione sovietica, seguita dalla resistenza passiva della popolazione cecoslovacca e infine gli anni della normalizzazione, scanditi dalle purghe, dalla fuga all’estero di artisti e intellettuali e dall’annichilimento di qualsivoglia fermento culturale.

Poco importa il credo politico a cui si appartiene, per tutti Praga è un simbolo la cui interpretazione spetta esclusivamente all’individuo. Che sia un nome da evocare con dolcezza o, al contrario, uno spauracchio da cui fuggire non fa differenza, ogni richiamo sembra far librare in aria la città che, sospesa tra essere e non essere, si ritrova suo malgrado nuovamente ancorata a terra, piegata sotto l’enorme peso che la storia le ha riservato. Si trasforma dunque, in uno specchio emozionale in cui i protagonisti possono scorgere il riflesso delle proprie inconciliabili contraddizioni.

Tomáŝ è un medico chirurgo stimato a livello internazionale la cui dedizione per la professione è pari solo a quella che riserva agli incontri erotici con le donne. Il suo è un sistema ben collaudato in cui ogni dettaglio costituisce una precauzione necessaria per evitare il più banale dei fraintendimenti umani, far coincidere l’amore con il sesso. Anni di amanti e un matrimonio fallimentare ammutoliscono di fronte a Tereza, giovane cameriera di provincia che giunge a casa di Tomáŝ fragile e disarmata come un bambino abbandonato in una cesta e affidato alla corrente.

Sei semplici coincidenze sono forse il capriccio di un fato annoiato ma sono sufficienti per Tereza, che trova in esse la forza di offrire a Tomáŝ la sua vita e la sua fedeltà. L’amore nato dalla casualità porta con sé tutta la leggerezza di un gesto avventato, eppure pagina dopo pagina si carica di nuovi significati, onerosi, che se da un lato proteggono il mondo di Tomáŝ e Tereza rendendolo impenetrabile a chiunque, dall’altro, il loro peso insostenibile li fa spesso vacillare, allontanare e in alcuni momenti perdere.

Ogni istante di piacere si consuma lungo l’abisso del dolore, l’altezza genera vertigini ed è facile cedere alla tentazione di lasciarsi cadere. La contrapposizione ontologica tra anima e corpo, leggerezza e pesantezza, positivo e negativo, sfuma inevitabilmente in una narrazione onnisciente in cui Kundera gioca a suo piacimento con la linea temporale, anticipando eventi (oggi potremmo dire spoilerando), ripercorrendo più volte la medesima vicenda ma da punti di vista diversi o semplicemente disseminando qui e là digressioni filosofiche.

La sensazione finale è di riconciliazione con se stessi e la natura, in cui però, la presenza di un invisibile fardello, questa volta l’ultimo, persiste fino alla fine.

 

(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, trad. di Giuseppe Dierna, Adelphi, 1985)