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Altre Narratività

Il profumo della neve

di Lorenzo Galantino / 4 dicembre

Quando un treno passava sopra la mia testa il rumore era così forte che tutto sembrava tremare, ma col tempo ci avevo fatto l’abitudine.
Arrivai a Milano dopo un viaggio infinito. Mi era stato raccontato che in Italia si poteva guadagnare bene e mantenere una famiglia senza problemi. Conoscevo un amico che faceva il venditore ambulante e alloggiai da lui in un monolocale alla periferia sud della città. Troppo piccolo per le quattro persone che eravamo, tutti nigeriani e tutti senza permesso di soggiorno. C’era il bagno in casa e per me quello era già un lusso, perché io non avevo mai avuto un bagno.
Con fatica imparai a parlare l’italiano e a fare l’ambulante. Ogni giorno riuscivo a racimolare qualche soldo. C’era chi finiva per lasciarmi solo una moneta senza comprare nulla, e chi mi allontanava in malo modo, ma io non mi scoraggiavo. Vendevo di tutto: oggetti in legno, borse, bigiotteria, libri di scrittori africani.
Le giornate trascorrevano tutte uguali. Ci alzavamo all’alba e cercavamo un luogo dove vendere. L’estate lavoravamo fino a tardi, mentre l’inverno rientravamo non appena faceva buio. Nei momenti liberi indossare gli abiti sgargianti del nostro paese ci faceva sentire come a casa, quando intorno a un fuoco si scherzava e si parlava della vita.
La nostalgia per miei era insopportabile, mi mancava tanto la nonna materna. Sono cresciuto con lei, mentre mia madre portava gli animali al pascolo. Da piccolo mi raccontava tante storie sugli antenati e mi insegnava le tradizioni. Eravamo una bella famiglia, ma eravamo molto poveri. Lasciai tutti là, compresi un fratello e due sorelle più piccoli, con la certezza che un giorno sarei tornato.
A Milano vivevo di poco e all’inizio cercavo di mandare tutto quello che riuscivo a farmi avanzare in Nigeria. Non era facile sapere se il denaro arrivasse o meno a destinazione e alla fine ho lasciato perdere.
Mi abituai presto a vivere in quella città, soffrivo solo le temperature rigide dell’inverno. La prima volta che vidi la neve rimasi meravigliato e superato il primo momento di smarrimento, trovai la cosa piacevole e divertente. Me ne aveva già parlato la nonna: diceva che era una sorta di magia e aveva ragione.
Un giorno fui costretto a lasciare l’appartamento. Arrivò il fratello del mio amico e io decisi di cedergli il letto. Non sapevo dove andare, mi arrangiai dove capitava. Arrivai a dormire in provincia in una fabbrica abbandonata e fatiscente. Provai a cercare un appartamento o una stanza in affitto, senza risultato.
Un pomeriggio di una domenica di giugno, mentre stavo raggiungendo il mercato, si scatenò un forte temporale. A breve distanza da dove mi trovavo c’era un ponte della ferrovia. Un piccolo ponte, largo pochi metri, che permetteva il passaggio di una linea ferroviaria secondaria. Tagliava una strada a doppia corsia e con due arcate riparava i marciapiedi sottostanti.
Cercai riparo proprio in uno di quegli spazi. Il temporale continuava a imperversare con violenza, mi sedetti a terra per risposare e a un certo punto mi addormentai.
Quel posto mi piaceva. Era molto sporco, ma allo stesso tempo sicuro. Non rischiavo aggressioni poiché si trovava in una zona di passaggio. Per lo stesso motivo, mi sembrò subito un punto strategico per esporre la merce. In seguito mi accorsi che appoggiandosi al muro si avvertiva un flebile tepore. In superficie passavano delle tubature di acqua calda che portavano il riscaldamento da qualche parte.
Cominciai a stare sempre più spesso sotto il ponte, giorno e notte, soprattutto quando il clima era gradevole, anche se mi capitava di dormire da amici. Mi attrezzai con una specie di tenda, che usavo nelle notti più fredde e mi procurai un materassino in spugna per non stare a contatto con l’asfalto. Comprai del colore rosso argilla per dipingere le pareti, ormai lerce di nero fumo e imbrattate da tanti graffiti, e in quel modo sognavo di trovarmi tra le case del mio villaggio. Dovetti rinunciare nuovamente al bagno.
Gli anni scorrevano, il tempo passava. Non tutto andava come avevo sperato, non guadagnavo molto ed era impossibile trovare un lavoro: non avevo il permesso di soggiorno. A volte, fui costretto a chiedere l’elemosina e non ne andavo fiero.
Se avvistavo qualcuno in divisa, mi davo alla fuga. Avevo imparato a evitare i controlli, anche se mi è capitato di essere portato in commissariato per essere poi espulso in quanto clandestino. Riuscivo a restare, cambiando semplicemente le generalità. Ho trascorso addirittura tre notti in cella, accusato di non so quale reato, ma poi mi hanno rilasciato perché non avevo fatto niente. Per fortuna si abituarono alla mia presenza tanto che iniziarono a non chiedermi più i documenti. Un poliziotto che amava l’Africa mi prese persino in simpatia chiedendomi sempre di raccontargli del mio paese.
C’era un gran via vai di persone davanti a me, alcune neanche mi vedevano, altre mi sorridevano soltanto. Qualcuno si fermava a comprare o a scambiare quattro chiacchiere e c’era addirittura chi mi portava da mangiare; ma c’erano pure quelli che, con la bocca socchiusa, masticavano oscenità che a malapena capivo verso di me.
Non so come sono riuscito a trascorre tanti anni in quelle condizioni, sta di fatto che sono passati dei decenni. Nel frattempo avevo saputo che al villaggio erano rimasti solo i miei fratelli e i cugini: i più anziani non c’erano più. Un dolore immenso che aumentava al pensiero di avere solo un ricordo sbiadito dei loro volti, non avevo nemmeno una foto sulla quale piangere.
I progetti di famiglia erano falliti: non potevo offrire nulla a una moglie, non avevo una casa, né un lavoro. Ero diventato un senzatetto, mi ritrovavo in una situazione che non avrei mai pensato di vivere.
Solo grazie ad alcune amiche nigeriane che lavoravano sulla strada, avevo potuto ritrovare il calore e il conforto di una donna, quando la solitudine si era fatta sentire più forte. Invecchiando non le cercavo più, con gli anni iniziai a rimanere sempre più solo.
Una fredda sera d’inverno il cielo era pieno di nuvole che sembravano di panna, c’era aria di neve. Ne avvertivo il profumo. Avevo imparato che la neve aveva un proprio profumo che si poteva sentire già prima che cominciasse a cadere. I giorni precedenti non ero stato granché bene, avevo preso l’influenza. Mi aveva visitato un medico, uno di quei volontari che girano di notte per aiutare i derelitti come me e mi aveva lasciato dei farmaci da prendere. Non ebbi la forza di cercare un luogo per dormire al caldo e decisi di restare sotto il ponte.
Non mi sdraiai avvolto dalle coperte mi appoggiai al muro appena tiepido e rimasi diritto e immobile fino al momento in cui chiusi gli occhi. La neve sospinta dal vento arrivò a spolverarmi il viso; io non la sentii.
Mentre uscivo dal mio corpo, nessuno si accorgeva di niente.
Quei pochi che passarono da lì quella notte, avevano fretta di tornare alle loro case e sicuramente pensavano che dormissi.
Mi trovarono il mattino seguente, assiderato e imbiancato dalla neve. Ne era venuta giù tanta in poche ore. Sui giornali e al telegiornale accennarono all’accaduto per parlare di quella forte nevicata: ero stato una vittima del freddo che nessuno conosceva.
Me ne sono andato senza disturbare, nello stesso modo in cui ho vissuto. Ho provato a cambiare la mia esistenza, ho fatto del mio meglio. E non posso rimproverare niente a nessuno. Forse non mi hanno aiutato abbastanza, ma non ha più importanza. Non ho potuto e non ho voluto pretendere niente dagli altri. Sono stato abituato a non farlo. In fondo, la vita è difficile per moltissimi uomini donne e bambini e raramente ti regala qualcosa.
Sono stato uno dei tanti invisibili che attraversa la storia dell’umanità. Mi spiace solo di non aver avuto dei figli per trasmettergli qualcosa di me. Mi conforta sapere che qualche diseredato del pianeta ce l’ha fatta nel passato e che qualcun altro ce la farà nel futuro. Ecco perché vale sempre la pena provarci.
Ora ho raggiunto i mei cari. In un primo momento ho faticato a riconoscerli. Troppi anni erano trascorsi dall’ultima volta che li avevo visti. E anche loro hanno faticato a riconoscermi, invecchiato. Mia nonna era contenta di vedermi ed era orgogliosa di me. Abbiamo iniziato a parlare e le ho raccontato di quanto fosse bella la neve e il suo profumo. E mentre lo facevo, lei sorrideva.
Il mio nome era Ikechukwa Emenike uno dei tanti figli del grande popolo degli Igbo, ma si sa, è un dettaglio di poco conto quando si è un emigrato clandestino.

 

 

 

Questo racconto si è classificato terzo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare (terza edizione), organizzato da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.