Flanerí

Libri

“Niente miracoli a ottobre”
di Oswaldo Reynoso

Il racconto sociale di una metropoli e del suo popolo dolente e orgoglioso

di Chiara Gulino / 11 gennaio

Se fosse un quadro Niente miracoli a ottobre del peruviano Oswaldo Reynoso (SUR, 2015) sarebbe un quadro modernista, un Picasso o un Matisse, realizzato con pennellate di colore decise, date senza tentennamenti e senza alcuna cura della stesura o degli accostamenti di tonalità primarie fra loro.

E sarebbe di un colore viola (come la copertina), quel colore che Leonardo nel Trattato di pittura definì «un misto composto dall’azzurro dell’aria e dal rossore del fuoco».

Il viola è ottenuto infatti dalla mescolanza del rosso con il blu, è il colore della congiunzione (una conuctio oppositorum) fra corpo e spirito, tra la passione e l’irruenza del rosso e la tranquillità e trascendenza del blu. È infine il colore che nel Cristianesimo è usato nei periodi di purificazione penitenziale.

È il viola, un colore quasi violento, emotivamente carico come un fiume in piena, a dominare il libro di Reynoso che è il racconto di una giornata di ottobre nella Lima degli anni Sessanta, dalle 8 di mattina alle 21:22 di sera, durante la quale di svolge una processione dedicata al Signore dei Miracoli.

E viola acido è il cielo sopra la capitale peruviana immersa nella garúa, la foschia invernale densa e piovigginosa tipica di Lima. La giornata plumbea rivela un’incrinatura, un’ombra luttuosa, che neppure gli arabeschi dello stile, definito dai critici ««realismo urbano», possono evitare.

Nella processione, che dal 1760 fa sì che «padroni e schiavi, signori e popolo, figli di papà e plebe, in ottobre, sono uguali grazie alla magia ruffiana di una semplice tunica viola», c’è racchiusa tutta l’umanità e le sue contraddizioni: un pigiarsi voluttuoso e infoiato fra sacro e profano; potenti domini degli affari economici e politici, come don Manuel, attratti dai ragazzi dei quartieri poveri, che fumando lasciano cadere cenere d’insoddisfazione, aggressività e paura, strati di amarezza che non si dissolvono alla luce arancione, scura e torbida del tramonto; una donna che partorisce tra urla di dolore e i canti e le preghiere delle vecchie vestite di nero e dei penitenti con la tunica viola; una confusa miscela di umori, di gigli, sperma, incenso e sudore. C’è poi l’ondata anomala dei manifestanti, studenti e operai, di Plaza San Martín che sbatte contro il muro della polizia tra lacrimogeni, cani uggiolanti, spari che si confondono con i fuochi d’artificio della processione «nel cielo lattiginoso di garúa».

Il romanzo di Reynoso, uscito nel 1965, fu accusato di oscenità per le tematiche (omosessualità che rasenta la pedofilia, politica e religione) e lo stile enigmatico che passa costantemente dal detto al pensato, con brusche sterzate che portano a sbaragliare il diaframma fra figurazione e astrazione.

Questa non è però una giustificazione accettabile per la sua colpevole assenza in Italia per 50 anni.

Fra i suoi difensori ci fu il premio Nobel Vargas Llosa, per il quale «ogni buon romanzo dice il vero, e ogni cattivo mente».

Può darsi che della scrittura di Reynoso resti un’impressione di oscurità, di una certa tortuosa complessità, ma se ne riceve anche una di pienezza e ricchezza. Si potrebbe dire che lo scrittore di Arequipa con la mano sinistra chiuda l’Ulisse di Joyce e con la destra apra Faulkner (in particolare de L’urlo e il furore), per il suo continuo passaggio dal racconto al pensiero, evidenziato graficamente dal corsivo, dal dialogico al descrittivo.

I monologhi dei vari protagonisti (ad esempio don Lucho, un umile lavoratore in cerca di una casa per la famiglia sfrattata) ci danno la sensazione che l’ostinazione, la furia, la stessa disperazione alla quale, nel dispiegarsi della narrazione, sono inchiodati tutti i personaggi, sospesi in una movenza acrobatica e dolente, non siano altro che stati di per sé del tutto vuoti di senso. Sembra quasi che nessuno, ricco o povero, in questo racconto, sia dotato di sentimento, quel che accade dentro e fuori di loro ciascuno lo patisce e subisce.

Così alla fine don Manuel, ricchissimo e potente banchiere, che all’inizio guardava dall’alto della sua balaustra il popolo tumultuoso, turandosi il naso e al contempo gettando occhiate lascive al suo Tito, si scopri «nel grande specchio dalla cornice dorata: vecchio, voluminoso, calvo, con un grosso doppio mento e curvo come una scimmia; […] Si accostò alla balaustra e cominciò a percepire, a ondate brucianti, la solitudine del suo corpo enorme: solo allora capì che non aveva mai avuto un contatto tenero, disinteressato, amoroso, con gli esseri umani, con le cose: nessuno aveva mai amato il suo  volto; era al centro ma in disparte, distante da tutti gli uomini, come le pietre, come le stelle, fredde, lontane».

(Oswaldo Reynoso, Niente miracoli a ottobre, trad. di Federica Niola, Edizioni SUR, 2015, pp. 279, euro 16)

LA CRITICA - VOTO 8,5/10

Perché leggere Reynoso, delittuosamente dimenticato e grazie a SUR scoperto anche da noi? Perché Niente miracoli a ottobre è un caleidoscopio di personaggi, sostenuto da una magnifica scrittura torrenziale, e il ritratto di una città, Lima, vinta e perduta.