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Altre Narratività

La fuga di Billy Micklehurst

di Tim Willocks / 6 dicembre

In inverno, diceva sempre Billy Micklehurst, quando le notti erano lunghe e scure e ti svegliavi prima che facesse chiaro con i capelli congelati attaccati al bavero, quando i ricoveri e i dormitori erano stipati di gente – o quando, semplicemente, non eri dell’umore giusto per la compagnia dei vivi – era allora che Billy, con la sua blusa strappata, le scarpe senza lacci e le spalle ricurve per proteggersi dal vento, avrebbe affrontato la lunga marcia dal mondo degli inferi tra Deansgate e il fiume, compresi i bunker di cemento di Hulme e la splendida decadenza di Moss Side, e avrebbe superato ogni sorta di pericolo lungo la strada, finché non avesse trovato il santuario a cui anelava nella grande necropoli del Southern Cemetery.
C’erano oltre un milione di tombe al Southern Cemetery, diceva Billy. Sapeva che era così perché lui stesso aveva contato ogni singola lapide – tutte, giurava – e al chiaro di luna aveva letto i nomi e gli epitaffi su più di qualcuna. Inoltre – e quella rivelazione Billy la accompagnava con uno sguardo dietro di sé, oltre le spalle ricurve, quasi volesse escludere la presenza indesiderata di spie e ficcanaso – affermava di conoscere le anime terrene di alcuni di quei defunti poeticamente commemorati. Rifiutava di rivelare le identità di questi morti – a chiunque, persino a me – perché, diceva Billy, avevano affidato a lui delle piccole ma preziose parti della propria anima e avrebbe tradito quella fiducia se avesse divulgato l’identità di quegli spiriti che lo avevano eletto come loro guardiano e salvatore in questo mondo.
Billy andava al cimitero perché gli sfiatatoi del forno crematorio rilasciavano calore per tutta la notte, e se dormivi sopra il condotto potevi raggomitolarti al caldo, come il pane abbrustolito. Vedete, Billy diceva che i cadaveri in fiamme non erano come la legna da ardere o il carbone. No, i corpi cremati erano come una specie di centrale nucleare. Anche quando le ceneri erano fredde emanavano un calore invisibile che non potevi percepire con le mani, ma che ti riscaldava le ossa fino al midollo. Erano le anime, sapete, che lottavano per abbandonare la Terra. A quel punto, come se vedessero gli spiriti stessi danzar loro davanti in quel preciso momento, gli occhi di Billy sarebbero schizzati fuori dalle orbite con un terrore puro, vero. Un terrore che non avrei mai più rivisto. Poiché, spiegava, alcuni degli spiriti non se ne andavano mai. Erano intrappolati per l’eternità al Southern Cemetery. E più tardi, verso l’alba, quando il tepore degli sfiatatoi sarebbe svanito, i loro spettri avrebbero destato Billy dal sonno e lo avrebbero tormentato con la loro angoscia.
Gli spettri erano reali, giurava davanti a Dio. Poteva vederli con la nitidezza con cui vedeva me. Ed erano di vera carne e sangue, non evanescenti come nei film. Erano di ogni taglia ed età – dalle anziane signore avvizzite che erano morte in solitudine ai giovanotti forti e robusti i cui corpi erano stati dilaniati dalle macchine, persino un piccolo moccioso deturpato dal vaiolo. Venivano da ogni tempo, oltretutto – freschi della settimana precedente, o provenienti da cento e più anni prima. Billy avrebbe alzato gli occhi al cielo, le orbite colme di pietà reverenziale, agitando le mani come ali spezzate. Perché la cosa più terribile di tutte era che nessuno di loro sapeva il motivo per cui erano stati lasciati indietro. Non erano persone cattive – e ce n’erano parecchie sotterrate lì fuori, c’era da credere a Billy; persone che avevano combinato ogni genere di atrocità. Ma come può un piccolo moccioso essere cattivo? No, in definitiva erano solo persone che non sapevano perché non potessero andarsene via, né perché, tra tutti i vivi, ci fosse solo Billy Micklehurst in piedi nel buio a testimoniare la loro sofferenza.
Beh, dovete sapere che facevano affidamento su Billy Micklehurst affinché lui li liberasse tutti. E l’origine del tormento di Billy era questa: non sapeva come fare.
A guardarlo, Billy poteva allontanarsi di una decina d’anni da ciascun lato dei cinquanta. Decenni trascorsi per strada, e innumerevoli litri di Mann’s scura, punch allo Yates e alcool denaturato gli avevano trasformato le ossa, la pelle e gli organi interni in un rottame indistruttibile. Il suo viso faceva impressione per via di occhi e denti. Gli occhi riuscivano a essere allo stesso tempo infossati e sporgenti di ferocia e, mentre la mascella inferiore vantava una schiera completa di zanne ingiallite, la gengiva superiore, devastata dallo scorbuto, poteva schierarne solo due – un canino e un incisivo – che dondolavano pericolosamente e si piantavano nelle labbra quando chiudeva la bocca. Malgrado ciò, era un compagno abbastanza elegante, a modo suo: i capelli erano ancora neri come il petrolio e sempre tirati all’indietro in una matassa unta che lasciava scoperta l’ampia fronte disseminata di cicatrici. Di solito indossava una blusa – grigia, a doppiopetto – e un leggero gessato ricoperto di macchie multicolore di dubbia provenienza. Le scarpe erano allacciate di rado, le stringhe si strappavano sempre e costavano una fortuna; e in estate – molti anni prima che questa abitudine diventasse popolare tra i modaioli – spesso si presentava scalzo, mettendo in bella mostra piedi candidi come una toilette cinese e decorati con fragili fili blu. Le camicie tendevano al logoro e al sudicio, ma erano immancabilmente illuminate da un foulard di seta scarlatta con un orlo sfrangiato d’oro che indossava a mo’ di cravatta intorno alla gola.
Diceva – in molte occasioni, e sempre con un certo orgoglio – che il foulard gli era stato donato nel millenovecentosessantatré da un’aristocratica del Leicestershire che affermava di essere andata a letto con David Niven, l’attore, durante la guerra.
La prima volta che incontrai Billy, nel luglio del 1976, era appollaiato come una gargolla su una panchina del sagrato di Sant’Anna, i gomiti sulle ginocchia, le mani intrecciate, intento a rimuginare fissando le mattonelle levigate dal tempo ai suoi piedi e, di tanto in tanto, alzando gli occhi per deridere i passanti che provenivano dal vicolo di King Street. Io avevo diciassette anni e cercavo un posto per consumare la cena, e pensavo che il piccolo sagrato fosse una cornice esotica. Mi era passato per la mente di non sedermi accanto alla gargolla e di trovare un altro posticino per mangiare, ma dato che l’idea mi sembrava sia scortese che vigliacca mi accomodai sulla panchina a mezzo metro dall’uomo. A quel punto – in quel luogo sacro, aduso com’ero alle imposizioni, positive e negative, del cattolicesimo – il sacchetto di carta che tenevo in mano, contenente un tramezzino al pomodoro e formaggio e un po’ di patatine al pepe e all’aceto, d’improvviso mi parve uno strumento di tortura. L’uomo doveva essere affamato. Puzzava come se fosse affamato. Eppure, allo stesso tempo, non volevo ferire il suo orgoglio, dicendogli, di fatto: «Tieni, prenditi il mio sandwich, povera vecchia canaglia». Così non aprii il sacchetto. Mentre sedevo fissando il vuoto, riflettendo su quell’inaspettato dilemma morale, la gargolla – gomiti sulle ginocchia e mani intrecciate – ruotò lentamente il capo e mi guardò.
Io lo guardai di rimando, dritto in quegli occhi infossati eppure sporgenti che avevano contemplato un universo che non avrei mai conosciuto. Non mi venne in mente nulla da dire. Era l’incarnazione della vita vissuta; io invece non avevo fatto altro che andare a scuola e sostenere esami. Lo guardai e basta.
Disse: «Sono Billy Micklehurst. E non me ne frega un cazzo».
Sollevai il sacchetto di carta come fosse un’offerta a un idolo pagano e dissi: «Ti andrebbe un sandwich?»
Billy scrutò dubbioso il sacchetto e disse, riferendosi al tramezzino all’interno: «Cosa c’è dentro?»
«Formaggio e pomodoro» dissi. «Ho anche delle patatine, se ti piacciono. Pepe e aceto».
«Forza, allora».
Gli porsi il tramezzino e Billy lo prese. Quando gli offrii le patatine, scosse la testa.
«Le patatine mi danno aria».
Divorò il tramezzino con enormi morsi che gli lasciarono tra le gengive delle striscioline di crosta che si ricacciò in bocca con il dorso della mano, proclamando, con lieti ringraziamenti a Cristo, quanto fosse buono un sandwich. In pochi secondi il panino era andato e mi parve che, avendo trovato l’eterno riposo all’interno della pancia di Billy, poteva anche essersi trattato del più straordinario sandwich mai preparato. Billy tirò fuori un fazzoletto sporco e si ripulì il mento da burro, semi di pomodoro e saliva. Con uno svolazzo degno d’un mago, scosse via i frammenti di cibo dal fazzoletto e se lo rimise nel taschino.
«Dio ti benedica, Pel di Carota» disse Billy. Con la mano fece un gesto che sembrava sottendere il mondo intero. «Sono dappertutto» mi avvertì. «Non lasciare che ti mettano addosso le loro mani insanguinate».
«Di chi stai parlando?» dissi.
«Di quelli che cercheranno di trascinarti giù, e di tantissime altre cose che è meglio non vengano menzionate» disse Billy. Aggiunse: «Puoi credermi sulla parola» poi si alzò dalla panchina e se ne andò.
Quell’estate mi parve di imbattermi in Billy in continuazione. Alcune volte era coinvolto in feroci discussioni con un logoro capannello dei suoi commilitoni; agitava le braccia, sventolava i pugni in aria e si girava a sputare nel fango con disgusto. In un’occasione, proprio nella piazza di Sant’Anna, lo vidi che ballava il valzer – con un’eleganza e un’armonia di forme sorprendenti – su e giù per il marciapiede fuori da Sherrat & Hughes, una lattina di Hofmeister in entrambe le mani e un ghigno beato stampato sul viso. Un’altra volta lo trovai in piedi, rigido e ammutolito, all’uscita della stazione Victoria. Gli sorrisi e lo salutai e gli chiesi come andasse, ma Billy mi fissò senza riconoscermi, quasi fossi una creatura proveniente da una lontana galassia. Il mattino seguente, invece, mi salutò dalla panchina sul sagrato come un vecchio amico, e mi offrì un sorso di qualcosa che sapeva di candeggina, senza il benché minimo ricordo del nostro incontro del giorno precedente.
Talvolta passeggiavo con lui nel quartiere di Ancoats e mi mostrava le fabbriche e i magazzini sventrati, luoghi dove un uomo privo di alcun legame poteva costruirsi un rifugio. Ogni tanto, la domenica, andavo con lui all’Eucaristia organizzata dall’associazione St. Vincent de Paul in una chiesa abbandonata delle zone bombardate a est del fiume Erwell, dove dozzine di uomini come Billy, e anche una manciata di donne, si radunavano per ascoltare le letture del Vangelo e ricevere la comunione al fine di saldare il debito per il tè caldo e i sandwich che facevano seguito all’ultimo “Amen”. Sapete, Billy diceva che Manchester era «una buona città per i vagabondi». Una buona città; o, almeno, una molto migliore di altre. Di tanto in tanto, Billy se ne andava a sud per intere settimane, «per questioni di una certa importanza che è meglio lasciar sottaciute, ora che sono state risolte»; ma ritornava sempre, perché Manchester era la sua città, una città buona. Perché, diceva sempre Billy, a Manchester erano morbidi anche i poliziotti.
E fu così che dalla mia immaginazione, e grazie ai racconti di Billy e alle esplorazioni in sua compagnia, sorse un’altra città, più concreta e vivida di quella che credevo di conoscere: una città oscura. Una città di reietti che riluceva d’una maestosità guasta: un’architettura della sconfitta di gran lunga più monumentale del brulicante triangolo di negozi e uffici accatastati tra le stazioni ferroviarie e inconsapevolmente lambito dalla grandiosità del suo passato. La città oscura di Billy era un’epopea il cui scopo, la cui elaborazione e costruzione, era molto al di sopra delle possibilità – o dei sogni – degli uomini moderni ed era stata edificata da una razza come non se ne sarebbero viste più: colossi di mattoni rossi enormi e anneriti dove generazioni dimenticate e anonime avevano sgobbato una vita intera; stucchevoli e decadenti aristocratici fiorentini che si vantavano di ricchezze dissolte da tempo con austera vanità; vento e fumo che spazzavano pontili eretti con pietre così grosse che avrebbero potuto decorare le tombe dei faraoni egizi; templi deserti consacrati all’assicurazione dei beni e allo scambio, allo stoccaggio delle merci e alla produzione, allo sfruttamento e all’ingordigia; canali sommersi dalle scorie, inceneritori arrugginiti, pulegge saldate dal tempo alle proprie catene; la silente geometria delle arcate ferroviarie, pavimenti che i piedi non avrebbero più calcato; la Ragged School in Sharp Street con il suo cartello rosso e sbiadito; le ciminiere snelle e incredibilmente alte che non avrebbero più vomitato fumo. E tutto ciò era vuoto, sconfitto, fatiscente, superfluo e disprezzato – da tutti eccetto che da Billy, il cui cuore si struggeva per quella bellezza. Billy sapeva che, proprio come lui, la gloria di questa città oscura sarebbe presto morta e sarebbe stata sepolta.

Era inverno, un rigido febbraio, e non vedevo Billy da mesi, quando una sera mi imbattei in lui a Shudehill. Era arruffato, la barba incolta, scalzo sebbene la notte fosse gelida, tremante dalla testa agli alluci mentre si aggrappava a un lampione in una pozza di luce gialla e pianto. Vide che mi avvicinavo e agitò la mano libera in un richiamo disperato.
«Pel di Carota» urlò Billy. «Pel di Carota! Il gioco è finito per Billy! Il mondo è finito! Mi braccano!»
Si bloccò e sibilò, e dalle labbra gli colò della saliva.
«Mi sono addosso!»
Lo portai al Turk’s Head e gli offrii whiskey e birra; i tremori di Billy diminuirono, ma non l’angoscia e il terrore nei suoi occhi. Fissava il fondo del bicchiere, un uomo assediato dai demoni in un mondo che solo lui poteva vedere, e che abitava da solo.
«Ti dirò» disse Billy «non me la faranno fare franca. Non questa volta. Questa volta capitolerò, è la verità. Ricorda le mie parole».
Le lacrime gli inumidirono di nuovo gli occhi, e Billy si asciugò il viso con il foulard di seta scarlatta, il cui orlo sfrangiato d’oro era grigio di sporco. Sembrava distrutto dalla confusione e dalla sofferenza.
«Nessuno può fare niente» sussurrò, come se anche lui che credeva ai fantasmi riuscisse a stento a credere in quello. «Proprio niente».
In quel momento avevo solo una vaga idea di cosa l’alcool potesse fare al cervello, né alcuna concezione del cieco orrore della psicosi. Non sapevo che la mente di Billy era l’equivalente neurologico del fatiscente scenario in cui dimorava. Le strade della sua memoria e le sue allucinate percezioni erano sventrate e decrepite in maniera casuale, bombardate e bruciate, avvolte nell’oscurità, cosparse di macerie e infestate di ratti affamati. Il contenuto della sua scatola cranica era assimilabile alle tessere sparpagliate di un puzzle – imbevute d’alcool, infiammate dalle avversità, funestate dalla malnutrizione e dalla malattia – assemblate e riassemblate con mano malferma sotto forma di immagini fantastiche, distorte, eppure dolorosamente reali. In mezzo ai pezzi di quel puzzle forgiato da delusione, psicosi e da un’immaginazione bacata proiettata all’interno di domini terribili e ignoti, c’erano senza ombra di dubbio grossi scampoli di ricordi reali, eventi accaduti, crimini commessi, atrocità e sofferenze. Ma cosa fosse cosa – quali tasselli fossero reali, quali immaginari e quali una deforme discendenza di realtà e fantasia – nessuno l’avrebbe mai saputo, men che meno Billy stesso. Per lui, tutte queste cose erano tangibili come il tavolo a cui sedeva.
Il gioco era finito, per Billy. Lo braccavano. E avrebbe capitolato.
Nella mia ignoranza, sapevo che Billy era malato – molto malato – e mi offrii di accompagnarlo all’Ospedale Reale per un controllo e un po’ di riposo; lenzuola pulite; una doccia veloce e una rispolverata, tutto qui. Per tutta risposta, Billy balzò in piedi allarmato. Mi fissava come se d’improvviso mi fossi rivelato uno di loro. Dopodiché mi voltò le spalle bruscamente e uscì dalla porta.
Lo raggiunsi all’esterno del locale, ma Billy non ne volle sapere. Se fosse andato all’ospedale avrebbe trovato la morte. Si era sparsa la voce di Billy Micklehurst. Loro gli stavano già addosso. Non appena si fosse disteso su un letto d’ospedale, «quelli l’avrebbero preso, così» – schioccò le dita – e la prossima volta che avessi sentito parlare di Billy le sue ossa avrebbero galleggiato nel Bridgewater. No. Era la sua ultima occasione. Doveva fuggire finché ne avesse avuta la possibilità.
Non sapevo che fare. Per quanto ne sapevo Billy soffriva di questi attacchi in continuazione ed era sempre riuscito a cavarsela, così gli ficcai in tasca una banconota da cinque sterline, cosa di cui Billy parve non accorgersi, poi gli dissi di badare a se stesso.
«Dio ti benedica, Pel di Carota» disse Billy. E con quello sparì nella notte.
Desiderai di avere il fegato per andare con lui. Ma era buio e faceva freddo, ed ero troppo assennato, o spaventato, o entrambe le cose. Oltretutto non ero certo di riuscire a superare la notte, anche se lui ci fosse riuscito. Mi continuai a ripetere che la fenomenale tempra di Billy lo avrebbe preservato per danzare un altro giorno con un sorriso beato stampato sul viso. Ma non fu così.
Tre giorni più tardi, nelle vicinanze del sagrato di Sant’Anna, uno dei compagni di viaggio di Billy, un certo Brady, che riconobbi e che sapeva che ero amico di Billy, mi bloccò lungo il vicolo per King Street.
«Billy è morto» disse Brady. «Pensavo volessi saperlo. Sai, si è impiccato a una croce al Southern Cemetery con quel bizzarro foulard rosso che portava sempre».
Billy Micklehurst – l’uomo indistruttibile – si era suicidato. Mi sembrava impossibile, eppure inevitabile. Era fuggito verso il cimitero con quel tetro proposito in testa? O gli spettri dell’angoscia lo avevano destato dal sonno e lo avevano condotto a morire da solo, in un vortice di solitudine e paura? Qualunque fossero le intenzioni o i fatti, la sua impenetrabile disperazione aveva reso la prospettiva di impiccarsi a una lapide più allettante del panico del sorgere di un nuovo giorno.
Dissi a Brady che mi dispiaceva. Brady annuì, e convenne con me che era un peccato. Ma Brady, che aveva vissuto come Billy, duramente, mi ricordò che queste cose potevano accadere e che, dopotutto, Billy Micklehurst era campato più a lungo di molti altri. Ci separammo sul sagrato, e finì così.
Seppi dalla polizia che era vero. Billy si era impiccato a una croce; non si sospettavano atti di violenza. Nessuno rivendicò il corpo e lo seppellirono in una fossa comune a Longsight, che alla fin fine è una tomba buona come qualsiasi altra. Billy aveva vissuto la propria vita come aveva voluto, e la città – come ogni città – aveva da raccontare storie più oscure della sua. Eppure pensavo a lui ogni volta che passeggiavo in piazza Sant’Anna, o a Shudehill, o passavo da Ancoats sul bus duecentotrentasei. Non riuscivo a togliermelo dalla testa. Così, una notte della primavera seguente, dopo che ero rimasto fuori fino a tardi a Chorlton, varcai i cancelli del Southern Cemetery per controllare se i fantasmi di Billy fossero ancora in circolazione.
Non ce n’erano, per quanto potevo vedere, sebbene fosse un posto agghiacciante, quello era certo. Pensai a Billy, circondato dagli spettri da cui non riusciva a liberarsi, e sperai in qualche rivelazione o evento soprannaturale simili a quelli in cui non avevo mai creduto. Non accadde niente del genere. Allora lo immaginai. Immaginai l’anima di Billy che sorgeva – indistruttibile – dalla fossa comune a Longsight e che piombava giù dal cielo come un pifferaio magico pezzente per radunare i morti intrappolati sulla Terra; i morti che non avevano mai commesso alcun atto di malvagità. Tutti lo vedevano arrivare e invocavano il suo nome – «Billy!» urlavano «Siamo qui! Siamo qui!» – e Billy rideva e alzava gli occhi al cielo e agitava nel pugno il foulard scarlatto del Leicestershire. E questa volta – ora che anche lui era libero e la sua fuga era terminata – i fantasmi furono in grado di sciogliere i propri vincoli e seguirlo. Girarono intorno alla necropoli una volta, con Billy che rideva in cima alla processione, e infine li condusse nell’infinito e scomparvero.
Non successe nulla – o, a ogni modo, quand’anche fosse accaduto io non ero lì per vederlo – ma mi rallegrò pensare che fosse tutto vero; e mi rallegra tuttora. E ancora oggi, quando sono triste – quando il gioco è finito, le voci si sono sparse e mi sono addosso – allora penso a Billy Micklehurst e alla sua ultima fuga, e Billy mi aiuta a liberarmi dal tormento.

 

 

“La fuga di Billy Micklehurst” di Timothy Willocks è tratto dalla raccolta di racconti Mucho Mojo Club in uscita il 7 dicembre 2016 per Casa Sirio Editore, in collaborazione con la Libreria Mucho Mojo (Firenze).

Timothy Willocks (1957) è uno scrittore e psichiatra britannico, e ha lavorato per alcuni anni alla riabilitazione dei tossicodipendenti. Il suo romanzo Bad City Blues è stato adattato per il grande schermo nel 1999 con un film interpretato da Dennis Hopper. Willocks ha anche scritto il film-documentario di Steven Spielberg, The Unfinished Journey, e il film Lo straniero che venne dal mare del 1997 (basato sul racconto del 1903 di Joseph Conrad Amy Foster).
Uno dei suoi romanzi più recenti, Religion (Cairo Editore), è ambientato nel 1565, durante l’Assedio di Malta ed è l’inizio di una trilogia che ha come protagonista Mattias Tannhauser. Nel 2013 è uscito il secondo romanzo della trilogia: I dodici bambini di Parigi (Multiplayer edizioni).

Mucho Mojo Club: Prendi gli scrittori più cattivi del panorama internazionale. Falli affacciare sull’orlo dell’abisso. Uniscili sotto la bandiera del Mojo di Joe Lansdale. Poi leggili, non ne potrai più fare a meno. Sono ladri, detective e assassini. Sono prostitute e homeless. Sono il lato oscuro delle storie. Si muovono nel buio, ti tolgono il fiato e troppo spesso non te lo restituiscono. Sono tra noi. E sono pronti a colpire.