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Oltre il Novecento

Alcune riflessioni su “La poesia” di Giorgio Manacorda

di Giuseppe Martella / 23 gennaio

C’è un’ombra con cui Giorgio Manacorda sembra sotterraneamente dialogare e combattere, e che forse restituisce la misura di quasi vent’anni vissuti a scandagliare la poesia, le poesie, di cui ha dato conto nei suoi annuari: l’ombra di un parricidio. I termini di questa lotta di pensiero riguardano Parmenide, con la sua pretesa di fondare il molteplice con la sferica e immutevole identità dell’Essere, e Platone, che per via di figure di intermediazione – il Demiurgo, la matematica – è riuscito a far ponte tra l’Idea dell’Uno e del Bene e le singole realtà quotidiane, irriducibili tra loro. L’ombra quindi si allunga e ingoia nel suo cono Aristotele.

Le ragioni per le quali questa lotta riguardi la poesia hanno per estremi lo Ione, il Simposio e la Poetica. Il razionalizzante Platone doveva specificare in quali modi il Dio spossessasse il poeta (il poeta tragico) lo lacerasse (accomunando il suo destino a quello di Dioniso) per farlo poi rinascere trasfigurato nella sua opera: la manìa, che operava come la pietra di Eracle (come un magnete), permetteva alla poesia di legare chi legge a chi ascolta; eppure il poeta non aveva scienza di ciò che scriveva, cento versi di lotte non sono riusciti a rendere Omero un guerriero né un auriga. Perché a parlare non era lui, ma il Dio. Si tratta di possessione diremmo ora: ethousiasmòs, si definiva allora. E poi un testo, il precipitato di questa possessione, cos’era se non la copia di una copia di una copia? Immagine, mimesi, che copiava la realtà, che a sua volta copiava (ontologicamente, per proprio statuto) le Idee. Questa immagine sgranata, la poesia, non aveva allora ragione di essere, pativa inoltre l’aggravante di mescolare l’anima degli uomini allontanandoli dalla ragione, tratto d’elezione dell’uomo.

Che i poeti siano dunque banditi dalla Città Ideale! O che rimangano, ma a patto di educare i cittadini con esempi di eroi e di dèi buoni e giusti (ma povero Platone, costretto in più occasioni a chiosare come il logos di cui voleva delineare natura e contorni dovesse di necessità essere accompagnato dal mythos, da un racconto, per stagliarsi distintamente: ragione che, dualisticamente, per contrappasso, veniva specificata dalla libera associazione di un racconto; logos troppo bathys, profondo, quasi un punto di fuga inattingibile secondo l’occhio di Eraclito, altro padre con cui Platone doveva farsi tornare i conti).

Aristotele comunque blocca di misura la porta che avrebbe sigillato l’irrazionale infilandoci il piede della catarsi. La catarsi, pulizia del corpo (non solo dell’anima), riequilibrio che la poesia tragica donava allo spettatore non più credulo di sé ma scagliato sul palco di un teatro (inaspettata anticipazione, verrebbe da dire con rischio, del lettino di un paziente in cura, in una talking cure). Poesia tragica, testo scritto che pulisce e riequilibra, provvisoriamente.

Ora conosciamo la meccanica della parola. De Saussure ha insegnato come questa si generi sotto specie di «immagine acustica», e sappiamo come l’associazione tra immagine acustica e oggetto che ne sia investito sia arbitraria. Questo arbitrio, il primo, fondativo libero arbitrio che permette di costruire senso prende il nome di metafora. Tutto, nella elaborazione di immagini donate di senso e nella loro sintassi, crea orizzonti di significazione.

Nella lingua e nella poesia – la cui funzione sembra essere costitutiva, a toccare le radici stesse della capacità di far nascere immagini e segni – la detonazione avviene grazie alla sinestesia: percezione simultanea. L’urlo nero di Quasimodo è una sinestesia: il grido di dolore diventa lutto, il lutto trascende al nero. E la sinestesia è un’applicazione esatta della metafora, è una trasposizione di senso che accresce la percezione di un fenomeno (uditivo e visivo, in questo caso); la percezione accresciuta di un fenomeno accresce il fenomeno stesso, potenzia e struttura di significato la realtà.

La mimesi è un ricordo scialbo, Platone aveva torto e noi possiamo sentirci un po’ più vicini al pur freddo e analitico Aristotele, che mantenendo un’ambiguità inaspettata nei confronti dell’espressione poetica ha comunque tollerato la possibilità di un movimento. Manacorda sembra suggerire come tolto forse il Romanticismo (e buona parte del Simbolismo, fino a Trakl e Celan, aggiungo per mia parte), la poesia abbia sempre subito una dissecazione tra razionalità e irrazionalità. Ragione e intuizione, gemelli vicini e lontani come Castore e Polluce: il primo ferito a morte, il secondo che decide di trascorrere un giorno nell’Ade, un giorno nell’Olimpo. Che la poesia attingesse la propria luminosità da pozzi (linguistici) vertiginosamente profondi era idea di Freud; e per Jung, poi, il primitivo viveva epifanicamente la nascita del pensiero, lo percepiva come manìa, di nuovo. E come inciso questo processo ancipite, questo gioco di luce e ombra è stato cristallizzato da Cortázar: «Apollo può avere anche un aspetto notturno, scendere nell’abisso per uccidere il serpente Pitone».

La poesia è forma di pensiero; non imita la realtà, la struttura, la informa (per mettere da parte una volta per sempre Platone e annuire ad Aristotele). E sembrerebbe che la capacità di costruire senso abbia avuto sul piano evolutivo la stessa portata della capacità di costruire un utensile.

Che sia nata per ragioni strumentali, che sia quindi una figlia forse illegittima della magia, o che sia cresciuta in canto come rendimento di gioia per la presenza d’oro degli déi accanto agli uomini, la poesia è per sua stessa natura la lingua, le nostre lingue, attraverso cui comprendiamo esperienza e mondo esterno. L’estensore del Dhammapada l’aveva intuito (e la traduzione che segue viene dalla mano di Chandra Candiani): «Tutto ciò che siamo è generato dalla mente. È la mente che traccia la strada».

Vico ha fatto bene a non dar retta a Cartesio.

(Ma perché oltre il Novecento? Manacorda ha scardinato con estrema e giustificata sicurezza l’intero arco poetico che ha interessato la generazione degli avanguardisti che riproducevano e serializzavano – ma non creavano; ha scansato senza alcun senso di colpa poeti nati editorialmente nella metà degli anni ’70, che avevano reagito alla riduzione dell’io poetico con un abbassamento di autocoscienza e di autocritica, e finisce buttando alle ortiche il nichilismo che ha abbracciato, velato, buona parte del secolo scorso, lasciando l’ultima parola, in apertura a questo saggio, a Nietzsche. Se le ragioni che hanno spinto Manacorda a scrivere non sono state fraintese, le parole che seguono dovrebbero bilanciare questo tentativo di esposizione: «La credenza nelle categorie della ragione è la causa del nichilismo».)

 

(Giorgio Manacorda, La poesia, Castelvecchi Editore, 2016, pp. 150, euro 18,50)

Foto tratta da:
http://www.dinoignani.net/giorgio_manacorda.html