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Lasciarsi andare

Intervista a Katie Kitamura, autrice di “Una separazione”

di Veronica Giuffré / 25 luglio

Se si potesse avere il controllo delle proprie azioni al punto da saper distinguere in che misura ciò che facciamo sia espressione di una precisa volontà e quanto invece sia un riflesso condizionato, sarebbe risolta gran parte della difficoltà di stare al mondo.

Attorno a un momento di scelta ruota Una separazione, l’ultimo romanzo edito Bollati Boringhieri di Katie Kitamura, classe 1979, giapponese di nascita, ma cresciuta in California. La protagonista della storia è una donna senza nome e senza volto, è l’ombra di un legame, l’altra metà di qualcosa che è svanito: la incontriamo nell’attimo prima di porre fine al matrimonio con Christopher, sebbene i due siano separati – in segreto – probabilmente anche a causa dell’infedeltà di lui.

A innescare l’intreccio, però, è la richiesta da parte della suocera che conduce la donna sulle tracce di Christopher, partito da qualche tempo verso una regione remota della Grecia per una ricerca antropologica, ma di cui non si hanno più notizie. La protagonista si trova così a fare i conti con la sparizione dell’uomo di fronte al quale non sa che ruolo interpretare: «Ma io? Cos’avrei fatto? Come e chi – marito, ex marito, amante, ipocrita – avrei pianto?».

Sin dal titolo, Una separazione sembra il racconto del «processo in cui due vite si districano l’una dall’altra».

La prima cosa che chiedo a Katie Kitamura, però, è se si tratti davvero di una scelta o se la ragione che spinge la protagonista a partire non sia piuttosto il bisogno di scoprire chi è davvero l’uomo che ha sposato.

Quando ho cominciato a scrivere Una separazione, anche io mi sono chiesta perché questo personaggio acconsenta alla richiesta di mettersi in viaggio per andare a cercare l’uomo da cui si è separata. Il nucleo della storia è tutto qui: la protagonista decide di partire, ma non per cercare una separazione definitiva. Al contrario, non è capace di lasciar andare il marito, non riesce ad accettare questa separazione.

Le storie che mi interessano sono quelle con al centro personaggi che essenzialmente non si capiscono. Nella cultura americana esiste questo falso mito della totale intimità e conoscenza dell’altro, invece io sono convinta che non sia mai possibile sapere tutto delle persone che abbiamo accanto; che esista – debba esistere – per ciascuno di noi uno spazio che agli altri non è dato conoscere. E questa ricerca di una dimensione di intimità ha molto a che fare con lo scrivere.

Man mano che la storia va avanti seguiamo questo percorso di scoperta di sé e dell’altro così come si dipana nella mente della protagonista. È curioso come l’espressione di emozioni intense sia affidata a uno stile narrativo che procede per sottrazione: una scrittura algida, tagliente e attraversata da un’inquietudine sottile, come se un presagio triste aleggiasse su questo romanzo sin dalle prime righe.

Quando il libro è uscito negli Stati Uniti, le recensioni si sono divise tra quanti hanno identificato in questa “freddezza” una caratteristica della mia cultura d’origine, e quanti invece hanno visto una componente gender nel riserbo della protagonista. Io preferisco la prima interpretazione e riconosco nel mio modo di scrivere molto delle mie radici giapponesi.

Quello che accade alla protagonista della mia storia è di non trovare il modo di entrare dentro la propria sofferenza. Questa donna non piange, non è ancora riuscita a fare l’esperienza piena e completa del dolore e mi sembra che averne scritto in questo modo abbia rispecchiato la sua condizione.

In Una separazione c’è un passo in cui sono messe a confronto le professioni dei due protagonisti: studioso e scrittore lui, per deformazione professionale sempre al centro della scena; traduttrice lei e abituata a lavorare «come se lo scopo finale […] fosse quello di risultare invisibile». Scrivere per te rappresenta un modo di essere visibile o di sparire?

Questa domanda mi riguarda in maniera molto personale come scrittrice, perché io sono arrivata tardi alla scrittura letteraria e, anche dopo aver pubblicato due libri, per anni ho esitato a definirmi una scrittrice, perché sentivo il bisogno di proteggermi da questo lavoro e quindi la storia che ho scritto è una storia raccontata da qualcuno che è riluttante a parlare, che è a disagio con ciò che gli sta capitando e deve ancora prendere le misure rispetto a quanto ha di fronte a sé. È chiaro che si tratta di una questione che sento profondamente mia, è centrale per la mia identità oltre che per quella dei miei personaggi.

Ancora prima di irrompere nella storia, la morte viene anticipata dall’incontro a Gerolimenas con una prefica, una di quelle donne che per professione piangono il dolore altrui. Se, come scrivi, è vero che «quando si vive una perdita pesante, ci si sente come impalati, difficilmente in grado di esprimere la propria sofferenza», si viene per reazione spinti a cercare un modo per farla emergere: può la scrittura diventare un mezzo per affrontare il dolore?

La questione del superamento del dolore per la perdita è per me estremamente delicata. Non so, penso che scrivere significhi in larga misura essere testimone di qualche cosa, e di conseguenza per me è come se la scrittura possa quantomeno aiutare a essere testimoni del dolore e della morte. Anche se non si tratta di una soluzione convenzionale al problema del dolore, perché la scrittura è qualcosa che ti mantiene ancora dentro al rapporto con il dolore. Il problema è che noi viviamo in un’era, in una cultura che sembra fare di tutto per incoraggiare le persone a tirarsi fuori dall’intensità dell’esperienza del dolore e della morte.

Provo a spiegarmi ancora sull’aspetto della testimonianza: quando, per esempio, io ho perso mio padre, quando la morte si approssimava a lui e io capivo di non poter fare niente dal punto di vista medico, mentre lui scivolava nel coma ed era chiaro che se ne stesse andando, mi sono detta che l’unica cosa che avessi potuto fare sarebbe stato testimoniare ogni aspetto, ogni momento di questo suo scivolare nella morte. In altri termini, ho preso la decisione di non girarmi dall’altra parte, perciò credo di poter dire che per me la scrittura sia questo: non girarsi dall’altra parte.

Gli occhi di Katie sono diventati lucidi. Sembra emozionata, mi stringe la mano e mi fa un sorriso. Le chiedo scusa se con quello che le ho chiesto posso aver toccato qualche tasto che fa ancora male.

(Katie Kitamura, Una separazione, Bollati Boringhieri, 2017,  trad. Costanza Prinetti Castelletti, pp. 189, euro 16,50)