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Libri

“Il codice di Perelà”
di Aldo Palazzeschi

L’insostenibile leggerezza del funambolo poeta

di Rossella Farnese / 11 ottobre

Fiaba surreale, favola beffarda, stravagante antiromanzo, Il codice di Perelà, avviato nel 1908, appare per la prima volta nel 1911 nelle Edizioni di Poesia accompagnato dal sottotitolo «romanzo futurista» e da una provocatoria dedica al pubblico, «quel pubblico che ci ricopre di fischi, di frutti e di verdure».

Emblema dell’estrosa e beffarda leggerezza artistica del funambolo e saltimbanco Palazzeschi, Il codice di Perelà, inglobato con altri due singolari romanzi giovanili, Riflessi (1908) – poi Allegoria di novembre – e La piramide (scritto nel 1912, pubblicato nel 1926), nella raccolta Romanzi straordinari, edita da Vallecchi nel 1943, è di continuo sottoposto a revisione e rielaborazione soprattutto per la successiva edizione Vallecchi del 1954, nella quale è modificato anche il titolo, divenuto provvisoriamente Perelà uomo di fumo.

Narrazione senza narrazione, assenza di un protagonista “a tre dimensioni”, sostituzione della voce narrante con il futile cicaleccio della folla: questi gli elementi che inducono a considerare Il codice di Perelà uno stupefacente esperimento di “antiromanzo” che destruttura il canone narrativo classico, eludendo programmaticamente i principi di verosimiglianza e di causalità.

Il gusto del divertissement e dello sberleffo si traducono, sul piano stilistico, nella teatralizzazione: costante il parlato teatrale, continui i dialoghi e i monologhi, lunghissime le sequenze di battute attraverso cui i personaggi intrecciano le loro voci come un coro.

Burlesche e trasgressive le tematiche: la feroce ironia demolitrice di Palazzeschi ribalta con scherno l’ordine costituito e le convenzioni, il perbenismo e la scioccaggine della società, agganciandosi al futurismo e – ancora di più – al dadaismo, inserendosi così in quella linea di «carnevalizzazione della letteratura», teorizzata dal critico russo Michail Bachtin nel celebre saggio sul romanzo grottesco Gargantua et Pantagruel di François Rabelais.

La vicenda è singolarissima: Perelà è un omino di fumo e scende dalla cappa del camino, dove ha vissuto per trentatré anni, dopo la morte delle tre madri centenarie – Pena, Rete e Lama, dalle cui iniziali deriva il nome – che tenevano alimentato il fuoco per lui. Indossati un paio di stivali, unico elemento solido del suo corpo volatile, Perelà va alla scoperta della città del Re Torlindao. Accolto a corte con tutti gli onori e incaricato di redigere un nuovo Codice di leggi, Perelà si cala nella vita quotidiana del regno di Torlindao ma quella stessa “diversità” che lo aveva favorito è motivo di disgrazia. Nel tentativo di imitarlo, infatti, il domestico Alloro si dà fuoco e muore, Perelà, processato e condannato, si salva fuggendo attraverso il camino, abbandonando gli stivali.

Allegorico e naïf, Il codice di Perelà, all’indomani della prima apparizione, fu accolto con entusiasmo dalla critica e Ardengo Soffici, direttore di Lacerba e esponente di primo piano del movimento futurista, si spinse addirittura a sostenere che fosse l’unico romanzo italiano, dopo I Promessi Sposi, a poter essere letto e riletto con piacere sempre costante.

Eccentrico e irriverente, Il codice di Perelà vede però nella sua fortuna critica lunghi momenti di ombra: trascurato per decenni, desta un risveglio di attenzione da parte degli specialisti solo quarant’anni dopo la sua pubblicazione. È infatti nel 1956, in un saggio apparso sulla rivista Belfagor – poi raccolto in Letteratura e verità – che Luigi Baldacci definisce la favola di Perelà il libro più valido, importante e felice di Palazzeschi, modello delle esperienze protonovecentesche per la leggerezza di tocco, le gustose invenzioni formali e la decisa caricatura delle idee correnti, e lo contrappone al più tranquillo e meno valido Stampe dell’800, modello per gli anni del ritorno all’ordine.

Una completa rivalutazione critica di quello che oggi appare come il capolavoro di Palazzeschi è favorita poi dal nuovo clima letterario degli anni sessanta per iniziativa di studiosi vicini al Gruppo 63. Contributo critico di primario valore è quello di Luciano De Maria nella sua Introduzione alla ristampa Mondadori del 1973, dove il critico da un lato coglie il parallelismo tra la vicenda Perelà e quella di Cristo per numerosi punti in comune (trentatré anni, l’arrivo improvviso nel mondo senza intervento paterno, l’ascesa tra la gente che si conclude in condanna e ascesa al cielo) e dall’altro ha il merito di porre l’accento sulla doppia allegoria che sorregge l’aerea favola: allegoria di una società e allegoria dell’impossibile opera di salvazione universale tentata dal protagonista con la sua sola presenza.

«- Fammi volare, amore!
– Aquile bianche, candide aquile come cigni, aquile d’oro, aquile d’argento, aquile nere, aquile di tutti i colori vanno su, su coi loro becchi adunchi, su su nel cielo…
– Vanno a strappare a Dio il velo sopra il suo mistero».

 

(Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà, 1911)