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Cinema

“Smetto quando voglio – Ad Honorem”: la fine come punto di partenza

La trilogia di Sydney Sibilia arriva al capitolo finale

di Francesco Vannutelli / 1 dicembre

Dopo la Masterclass arriva la laurea Ad Honorem. La saga di Smetto quando voglio, ideata da Sydney Sibilia, arriva alla conclusione. Al terzo film, il gruppo di ricercatori precari passa definitivamente dalla parte della giustizia, più che della legge, trasformandosi in una squadra di eroi quasi super.

Tutto era iniziato nel 2014 con il primo film. Il neurobiologo Pietro Zinni, stanco di una vita di contratti in scadenza all’università e lezioni di recupero in casa, riunisce un gruppo di accademici sulla via del fallimento per produrre una droga legale – una smart drug – da immettere sul mercato per fare soldi. Segue l’arresto, la galera, la collaborazione con la polizia nel secondo film. Ad Honorem vede la banda in attesa di processo che decide di evadere da Rebibbia per fermare un pazzo criminale armato di gas nervino. Per farlo avranno bisogno dell’aiuto dell’ex nemico “Er Murena”, boss della mala romana con formazione da ingegnere navale, che conosce la storia e le motivazioni del pazzo, e il suo nome: Walter Mercurio.

«Ogni saga ha una fine». È la frase che accompagna il lancio di Smetto quando voglio – Ad Honorem, ed è un gran peccato. Perché se la serialità cinematografica sta assumendo sempre più spesso a Hollywood la dimensione del rifugio di sceneggiatori e produttori in crisi di idee, in un panorama ormai saturo di pilastri dell’immaginario, l’idea di costruire e alimentare un mondo, un universo filmico italiano sembra offrire degli scenari di enorme potenziale.

I tre film di Smetto quando voglio hanno dimostrato, in crescendo, la voglia e la capacità del cinema italiano di fare qualcosa di nuovo, di diverso. Il tentativo di fondere il cinema criminale alla Guy Ritchie, l’epica di una serie come Breaking Bad e la tradizione del miglior cinema popolare italiano (dai Soliti ignoti in giù) ha creato una strada da percorrere per vedere fino  a dove può portare.

È chiaro che non basta fare un film diverso per fare un film migliore. Ci vuole intelligenza in scrittura e produzione, ci vuole un cast adeguato. Ci vogliono i giusti elementi, in sintesi. La banda guidata da Sydney Sibilia in regia e Matteo Rovere in produzione ha trovato il modo migliore di unire tutto. C’è un’idea di produzione forte, con i tre film che si incastrano tra di loro con un’intelligente movimento temporale. C’è la costruzione dei personaggi che si affida, giustamente, alla ripetizione e alla caratterizzazione. C’è la nascita del villain che diventa un grandissimo momento di cinema, nel suo affidarsi comunque a stilemi narrativi già noti Quasi non sono tre film separati, ma un film unico.

Il primo Smetto quando voglio aveva lasciato uno strano senso di ambiguità. Il messaggio che emergeva suonava più o meno come: in un Paese in cui le menti migliori di una generazione vengono abbandonate dalle istituzioni, mettersi a produrre droghe sintetiche da vendere non è solo giusto ma addirittura doveroso. I due film successivi hanno aggiustato il tiro fino alla catarsi di Ad Honorem. La banda dei ricercatori diventa una Suicide Squad altrettanto mal assemblata ma più affiatata. Il nemico è forse, uno di loro, che ha spinto la sua frustrazione ancora più in là, oltre il confine del male.

Come e più di Lo chiamavano Jeeg Robot, come Veloce come il ventoAd Honorem è il saggio finale di una trilogia che dimostra come il cinema italiano, con un’intelligenza consapevole dei propri mezzi, può tornare a offrire intrattenimento brillante e divertente.

(Smetto quando voglio – Ad Honorem, di Sydney Sibilia, 2017, commedia, 96’)

LA CRITICA - VOTO 7,5/10

Il capitolo finale della banda dei ricercatori dimostra ancora una volta che i tempi sono maturi per un cinema italiano diverso, brillante e intelligente.