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Libri

Il rapporto di Fitzgerald con il racconto breve

Per te morirei e altri racconti perduti

di Antonio Merola / 23 febbraio

Sebbene in ritardo di quasi mezzo secolo, alla fine anche gli italiani hanno riscoperto l’opera dello scrittore americano F. Scott Fitzgerald. Quando nel 1936 viene tradotto per la prima volta da C. Giardini Gatsby il magnifico per la collana della Mondadori, I romanzi della palma, la pubblicazione è a tutti gli effetti un fiasco. La situazione non migliora dopo che uno dei racconti di Fitzgerald, The Rich Boy, viene inserito da Elio Vittorini all’interno dell’antologia Americana (Bompiani, 1941) con una traduzione di Eugenio Montale: il curatore infatti oltre alla selezione del materiale, aveva accompagnato con una nota critica ciascuna suddivisione operata verso quei testi trasformando il libro in un manuale teorico sulla letteratura americana.  Se Hemingway era stato considerato la luce di quella letteratura, a Fitzgerald invece non era andata bene. Assieme ai dimenticati Kay Boyle, Evelyn Scott e Morley Callaghan, veniva proposto infatti nella sezione Eccentrici, una parentesi come uno scrittore minore e di poco conto.

Sarà Cesare Pavese a proporre di nuovo lo scrittore, quando nel 1949 chiede a Fernanda Pivano di tradurre per Einaudi il romanzo Tenera è la notte: «Non ho voluto tradurre io i libri di questo scrittore […] perché mi piacevano troppo», scrive all’amico Davide Lajolo. Mondadori poi acquisterà i diritti per gli altri romanzi, che verranno tutti tradotti da Pivano, eccetto quello postumo Gli ultimi fuochi (trad. di B. Oddera). E attraverso le introduzioni, la critica italiana sullo scrittore fa un passo avanti: Pivano cioè insiste fortemente sulla componente poetica dei romanzi di Fitzgerald – che si contrappone alla tendenza realistica degli autori a lui contemporanei – e sulla necessità di leggere quei testi in un rapporto diretto con la biografia dell’autore.

Da quel momento, il dibattito si sposterà sulle riviste: se Carlo Izzo tenta ancora di screditare Fitzgerald scrivendo che con il tempo la sua figura sarebbe stata ridotta «a proporzioni più modeste di quelle che oggi si tende ad assegnargli» (1958), Luigi Berti su “La Fiera Letteraria” (1953) sostiene con una precisa analisi testuale che Fitzgerald non è inferiore a Hemingway – così da contrastare il pesante (pre)giudizio di Vittorini. Nemi D’Agostino invece su “Studi Americani” (1957) definisce lo stile dello scrittore statunitense come «realismo magico»: così il cerchio teorico di Pivano veniva finalmente legittimato.

Potremmo concludere questa breve storia della critica italiana su F. Scott Fitzgerald con il principale riconoscimento accademico (nel 1958 Sergio Perosa pubblica la prima monografia sull’operato dell’autore), o ancora con il più importante riconoscimento editoriale dell’epoca: l’edizione cumulativa dei Romanzi curata da Fernanda Pivano (Mondadori, 1972). Eppure anche se negli anni successivi l’interesse per lo scrittore è andato via via scemando, improvvisamente qualcosa è cambiato di nuovo a partire dagli anni Novanta. Basta dare un’occhiata alla bibliografia che viene proposta sul sito di minimum fax alla pagina dedicata a Fitzgerald per farsene un’idea. E forse proprio minimum fax meriterebbe una medaglia d’onore: non solo ha ripubblicato i romanzi e I racconti dell’età del Jazz con delle nuove traduzioni, ma ha permesso ai lettori e alla critica italiana di entrare a fondo dentro l’uomo e il suo modus operandi con Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato. Consigli a scrittori, lettori, editori (trad. di L. Carra, 2000) e Sarà un capolavoro: Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori (trad. di Vincenzo Perna, a cura di Leonardo G. Luccone, 2017).

A questi si aggiunge la raccolta di portata internazionale Per te morirei e altri racconti perduti, pubblicata da Rizzoli (trad. di Vincenzo Latronico, 2017) dall’originale statunitense I’d Die For You: And Other Lost Stories (a cura di Anne Margaret Daniel, Simon and Schuster, 2017). Benché l’appellativo di «perduti» susciti una grande fascinazione, bisognerebbe spiegare bene che cosa si intende: anzitutto siamo di fronte a una serie di racconti, perlopiù scritti intorno agli anni Trenta, pensati da Fitzgerald e dal suo agente Harold Ober per le riviste e da queste rifiutati.

Il rapporto con il racconto breve nella produzione dello scrittore è bivalente: da una parte esiste quella destinata esclusivamente alle riviste popular, dove lo stile, l’ambientazione e il tono si adeguano e anzi soddisfano il gusto e l’aspettativa del pubblico, pure mantenendo il tocco personale dell’autore. Si può addirittura affermare che Fitzgerald vivesse di questi racconti, che gli fruttavano alcune migliaia di dollari ciascuno – e parliamo dell’America del primo novecento. Era capace di scriverne quasi uno al giorno e per gran parte degli anni Venti lui e Zelda Sayre vissero di quel lusso diventando per errore una maschera del loro tempo.

La capacità di sapersi adeguare al mercato fu uno dei motivi che portò alla rottura dell’amicizia con Ernest Hemingway, che in Festa Mobile racconta: «Scott Fitzgerald ci invitò a pranzo con sua moglie Zelda e la sua bambina nell’appartamento ammobiliato che avevano preso in affitto al numero 14 di rue de Tilsitt. […] Scott ci fece anche vedere un grosso registro con tutti i racconti che aveva pubblicato ordinati per anno con i compensi che aveva ricevuto per ciascuno e anche gli importi ricevuti per ogni cessione dei diritti cinematografici, e le vendite e i diritti d’autore dei suoi libri. Erano tutti accuratamente annotati come su un giornale di bordo e Scott li mostrò a noi due con orgoglio impersonale come se fosse il curatore di un museo. Scott era nervoso e ospitale e ci fece vedere la contabilità dei suoi guadagni come fosse stato il panorama. Non c’era nessun panorama». (da I falchi non dividono, in Festa Mobile, Mondadori, 2016, cit. p. 119).

Tuttavia, Fitzgerald sapeva che era proprio la tranquillità economica a permettergli invece di lavorare con calma alla produzione romanzesca – poteva osare sapendo che se la pubblicazione fosse andata male, avrebbe avuto le spalle coperte – e al tempo stesso di pagare le cure psichiatriche di Zelda e la scuola privata della figlia Scottie. Ma anche in questo caso, non si trattava mai di un lancio nel buio. Esisteva infatti una (seconda) produzione di racconti, che potremmo definire alta: tra un romanzo e l’altro infatti Fitzgerald ha sempre pubblicato una raccolta, attraverso la quale non solo sperimentava lo stile che poi avrebbe utilizzato nel libro successivo, ma in cui giocava con quegli stessi episodi che dalla forma breve sarebbero poi passati nella forma finale, capovolgendoli, mischiandoli, selezionando e tagliando – e grazie a questo lavorio riusciva poi a studiare la reazione del suo pubblico prima ancora dell’uscita di un romanzo.

Per te morirei e altri racconti perduti propone quei testi che appartengono alla prima delle due tipologie descritte fino a ora, cercando di restituirgli il proprio valore letterario come una conseguenza diretta del rifiuto delle riviste: ci doveva cioè essere una motivazione intrinseca ai testi che ne giustificasse il rifiuto, che più delle volte arrivava perché questi eccedevano o si scontravano con il gusto del pubblico. È il caso per esempio del racconto Il «pagherò» che apre la raccolta e che non è altro che una ferocia parodia del mercato editoriale coevo a Fitzgerald – e quindi impubblicabile su una rivista popular. O ancora di Incubo (Fantasia in nero), che ragiona sulla definizione di «pazzia» e insieme racconta la storia d’amore tra un (improbabile) paziente e una giovane psichiatra e che viene rifiutato perché, come scrive la curatrice: «La vita reale era già abbastanza difficile per sé, e la gente leggeva Fitzgerald proprio per evadere in un mondo di notti di luna e ricchezza». A guardare bene poi sembra che il tema sia molto simile a quello del romanzo che seguirà appena due anni dopo, Tenera è la notte (1934) – anche se capovolto. 

Tutto questo a ogni modo è vero in parte. C’era infatti un’altra e forse più importante motivazione di quei rifiuti: una motivazione cioè estrinseca ai testi. Se è vero che Fitzgerald poco più che ventenne aveva trovato l’enorme successo con il primo romanzo Di qua dal Paradiso (1924), questo era andato perdendosi sempre di più fino a fare precipitare l’autore in un paradosso: i racconti brevi vendevano perché Fitzgerald era famoso grazie ai suoi romanzi e come abbiamo detto Fitzgerald vendeva racconti brevi così da potersi dedicare con più accuratezza ai romanzi. Di qua dal Paradiso era esploso perché, sebbene raccontasse con innocenza gli albori della propria relazione con Zelda, si era ritrovato a descrivere anche quella generazione a loro contemporanea suscitando l’acclamazione dei giovani e lo scalpore di tutti gli altri, come scrive Fernanda Pivano: «Nella buona società i genitori se ne resero conto tardissimo, quando ormai i petting parties, le feste per pomiciare (e mi si perdoni questa parola orrenda), erano un uso quasi normale: quando era normale che una ragazza assolutamente perbene avesse baciato ventine di coetanei prima di sposare un coetaneo persuaso di essere il primo ad averla baciata o almeno a essere veramente riamato. I genitori se ne resero conto tardissimo: se ne resero conto soltanto quando un ragazzo di quella generazione, uno dei pomicioni frequentatori di quelle feste, pubblicò uno strano libro che le descriveva, e descriveva gli inauditi discorsi che quelle ragazze assolutamente perbene tenevano ai loro coetanei. Quando uscì il suo Di qua dal Paradiso, i giovani gli balzarono incontro ad acclamarlo, i genitori si rifiutarono di credergli e lo accusarono di impostura. Ma Fitzgerald non era un impostore; e pagò con la tragedia della sua vita la verità delle sue rivelazioni» (da Fernanda Pivano, Pagine Americane (Narrativa e Poesia 1943-2005), Milano, Frassinelli, 2005, cit., p. 138).

Il mondo a quel punto chiedeva alla coppia di mostrarsi come i rappresentanti più sinceri dell’«Età del Jazz»: ma se il successo aveva portato Scott e Zelda a vivere quel primo decennio dalla cima di una montagna artificiale, e quindi a coincidere con esso (o se vogliamo a rappresentarlo), è pure vero che il resto della loro esistenza prosegue all’interno di un confine spirituale personale e appartato: la patologia psichiatrica della donna. E così quando Fitzgerald si allontanò da quella situazione storica e sociale, il mondo decise di allontanarsi da lui. La verità è che a Fitzgerald non importava proprio niente di essere uno scrittore di costume: le sue opere, se lette nell’ordine cronologico di composizione, raccontano sempre e soltanto del rapporto con Zelda – nascono anzi dal dialogo con la donna e con la pazzia. E negli anni Trenta dopo il ricovero della moglie, la scrittura romanzesca era diventata per lui qualcosa da subordinare alla realtà, come racconta Piero Citati: «Fitzgerald non si allontanò dalla clinica di Nyon, sebbene potesse vedere Zelda soltanto ogni quindici giorni. Passò l’estate del 1930 negli alberghi di Glion, Vevey, Caux, Losanna e Ginevra. Mandava a Zelda un mazzo di fiori ogni due giorni, poiché lei adorava il futile e colorato paradiso dei fiori. I costi della clinica – “enormi” scrisse Zelda dopo la morte del marito – si aggiungevano alle spese per la casa di Parigi, dove era rimasta la figlia. Fitzgerald scriveva molti racconti e non si lagnò mai, come ripeté orgogliosamente Zelda. Il suo dolore era grandissimo. […] Nei suoi pensieri, Zelda era sempre avvolta da un’ondata di amore: per averne soltanto l’imitazione o l’eco, Fitzgerald sarebbe stato pronto a tradire la parte migliore di sé» (da Piero Citati, La morte della farfalla, Milano, Adelphi, 2016, cit., p. 49).

Così dopo Il grande Gatsby (1925) e una raccolta di racconti, Fitzgerald non scrisse nulla (per lui) di importante fino alla pubblicazione di Tenera è la notte (1934), che mise fine alla sua carriera di scrittore: tutti lo avevano dimenticato. Per te morirei dimostra allora la disperazione dell’uomo, che in quegli anni scrive soltanto per cercare un ritorno economico che garantisca le cure alla moglie. E quando persino i racconti popolari smettono di essere accettati dalle riviste, Fitzgerald si reca a Hollywood in cerca di un impiego diverso: Zelda veniva prima di ogni cosa. Nel mondo del cinema tuttavia nessuno pareva ricordarsi di lui e tanto meno apprezzare il tentativo di applicare il proprio stile narrativo alle sceneggiature. Così tutto era perduto: per cercare Zelda nel sogno, si chiuse in casa a scrivere di nuovo, ostinatamente, fino all’infarto quello splendido romanzo incompiuto che è Gli ultimi fuochi: la storia di un magnate di Hollywood che comincia una relazione con una giovane donna nella quale si illude di trovare i tratti della moglie scomparsa – e a questo proposito è tremendo ricordare la relazione che Fitzgerald ebbe in quel periodo con Sheilah Graham.

Solo allora l’America tornò a occuparsi di lui inneggiando al capolavoro, ma di tutto questo purtroppo Fitzgerald non seppe mai nulla: «In quei mesi di disperazione scrisse a Perkins [il suo editor per Scibner & Sons]: “Vorrei che i miei libri non fossero esauriti. Si potrebbe fare un’edizione popolarissima [cioè a basso costo o tascabile] del Gatsby o il libro non è abbastanza popolare? Morire in modo così totale e ingiusto dopo aver dato tanto…”. E infatti quando morì tutti i suoi libri erano completamente esauriti ed è noto l’episodio di Budd Schulberg che disse: “Credevo fosse morto” quando gli offrirono di scrivere una sceneggiatura con lui» (da Fernanda Pivano, Fitzgerald, Faulkner, Hemingway a Hollywood, in ID., Viaggio Americano, Bompiani, Milano, 1997, cit., p. 74).

 

(Francis Scott Fitzgerald, Per te morirei e altri racconti perduti, trad. di Vincenzo Latronico, Rizzoli, 2017, 455 pp, € 22.00)