Libri
In perenne lotta con la solitudine
Intervista a Mauro Casiraghi, autore del libro “Estate Indiana”
di Teodora Dominici / 13 marzo
È bello quando un autore, per rispondere a delle domande, cita a sua volta altri autori, componendo pian piano una mappa di riferimenti che magari un altro non avrebbe disegnato, appunto perché i punti nodali scelti acquistano significato proprio nella specificità del percorso. Il libro su cui ci concentriamo, Estate Indiana (Gaffi, 2017), è una lettura atipica: estremamente scorrevole a livello di forma, vagamente ostico per quanto riguarda il contenuto. Questo potrebbe essere il primo dualismo a cui Estate Indiana fa pensare. Poi c’è la questione del bilinguismo (due idiomi), quella dei personaggi speculari (due fratelli), quella dei due paesi raccontati, Italia e Canada. L’altra coppia oppositiva/complementare composta da presenza e assenza, e quella fondamentale rappresentata da vita/morte. Sia il linguaggio, che il rapporto interpersonale, che la riflessione sull’esistenza fanno capo alla ricerca dell’identità, una tematica cara, qui declinata in maniera inedita. Per avvicinarci al messaggio che l’autore ha inteso consegnare, abbiamo deciso di rivolgergli alcune domande, quelle che più ci premevano.
Una cosa che mi ha colpita leggendo Estate Indiana è stata il fatto che non mi sarebbe mai venuto in mente di descriverlo come un’esplorazione di un tema tabù (l’incesto), né di identificare in Peter il protagonista: cose che ho “scoperto” leggendo a posteriori la critica. Forse perché risuona tra le pagine una certa coralità, forse perché l’aspetto sentimentale è toccato con delicatezza. Qual è il vero centro del romanzo?
Mi fa piacere sgombrare subito il campo da questo equivoco. Il tema del mio romanzo non è l’incesto. Non nel senso di un amore proibito tra consanguinei. È vero che Peter e Celeste, i due protagonisti, sono figli dello stesso padre, ed è vero che condividono uno strettissimo legame pur essendo cresciuti separati tra Italia e Canada, ma la loro storia ha più a che fare con l’incapacità di amare che con il tabù.
Quale sia poi il vero centro del romanzo è tutto da scoprire. Provo un pudore istintivo a parlare apertamente di qualcosa che ho tentato di nascondere come un tesoro sepolto fra le parole. Il senso di una storia rischia di diventare banale se viene raccontato in due frasi, soprattutto se a farlo è chi l’ha scritta. Preferisco lasciare a chi legge il gusto di sbucciare il romanzo pagina dopo pagina fino a raggiungerne il cuore.
La Roma dei set cinematografici, il Canada con la sua natura selvaggia, poco addomesticata: nell’ambientazione scelta riecheggia il dato autobiografico. I due personaggi principali, Celeste e suo fratello Peter, sono agli antipodi sia per la loro personalità che per il luogo in cui hanno scelto di vivere: da cosa è nata l’idea di questi due personaggi?
Ho vissuto in Canada, dove ho scritto racconti in inglese durante gli anni dell’università, poi mi sono trasferito a Roma per lavorare come sceneggiatore. Sono due mondi che fanno parte di me e che ho cercato di fondere in questo libro attraverso l’incontro di Peter e Celeste. Ho sempre trovato affascinante la commistione di culture e lingue diverse. Sento a me affini scrittori come Conrad, Beckett, Ágota Kristóf, che hanno usato un’altra lingua per creare le loro opere. E poi mi piacciono i personaggi che scelgono di isolarsi dalla società per contemplare nel silenzio e nella calma il significato dell’esistenza. Così è Peter. Italocanadese. Bilingue. Vive come un eremita sulle rive di un lago sperduto. Sua sorella Celeste invece è un’attrice, bella e seduttiva come Roma, una città malata, decadente, isterica, eppure è impossibile non innamorarsi di lei. Nessuno sa davvero cosa c’è nel suo cuore. Tranne suo fratello Peter, forse.
Uno dei motivi centrali del romanzo è la perdita, o, lasciando da parte le edulcorazioni, la morte, già dall’incipit. Una tonalità latente anche quando non esplicitamente chiamata in causa, una sorta di “destino” tragico corteggiato a più riprese. È raro incontrare prove narrative la cui nota essenziale è proprio la morte, come scelta, come fatalità, come fantasticheria, come punto di partenza per la riflessione. Dove può condurre una simile indagine, passando per la scrittura?
Questo sì che è il vero tabù. La morte. Un argomento che può spaventare i lettori. Quando ci penso, mi viene sempre in mente la scena del film Non ci resta che piangere. All’esortazione del frate: «Ricordati che devi morire!» Massimo Troisi risponde con un ironico: «Sì, sì, mo’ me lo segno…». Non posso negare che la questione del trapasso abbia un certo peso in Estate indiana. Non ha però la funzione di un semplice memento mori. Come dice Flaiano nell’epigrafe del romanzo: «La morte procede per allusioni». Sono quelle allusioni che mi interessano. Più che la morte in sé, dunque, ciò che il libro racconta è un avvicinamento, una prossimità che spinge tutti i personaggi a un livello superiore di consapevolezza. Li aiuta ad aprire gli occhi, a interrogarsi sul senso della loro vita, a ritrovare legami familiari spezzati da tempo. Ma soprattutto va a sfiorare il senso di mistero che ammanta tutte le cose ogni qual volta ci soffermiamo a osservarle da vicino.
In Estate Indiana tutto ruota attorno alla disgregazione di una famiglia: Orlando ha avuto Peter con Katie, Celeste con Adele. Entrambe le donne hanno sviluppato un forte senso di malessere nei confronti di Orlando, che però verso la fine della storia gode di una sorta di riabilitazione. Come descriverebbe questa particolare figura paterna?
Orlando è stato un padre assente per i figli e un pessimo marito per le sue mogli. Egocentrico, bigamo, fedifrago, lussurioso, affamato di vita (ora che ci penso mi ricorda un po’ il Barney Panofsky del romanzo di Mordechai Richler, un autore canadese che amo molto). Non stupisce che le sue ex lo considerino un bastardo e che i figli non lo vedano da anni. Ma sono convinto che per quanto un padre possa essere disprezzabile, alla fine dobbiamo sempre fare i conti con lui. Per tutta la vita in fondo non facciamo altro che desiderare quella carezza negata. Il legame del sangue è forte quanto il rancore o l’indifferenza.
Anche se il finale apre, lasciando il lettore su un tema di rinascita, sembra che questa sia una storia di persone sole. È un’esigenza narrativa o pensa che, pur con tutti i legami che è in grado di intrecciare, l’uomo contemporaneo si trovi sotto sotto a fare sempre i conti con la solitudine?
Ecco che un possibile tema centrale del libro comincia a emergere… Sì, sono convinto che gli esseri umani siano in perenne lotta con la solitudine. Oggi come ieri. Credo anche che i libri abbiano la capacità di rendere questa solitudine più sopportabile. Le storie che raccontiamo creano una fratellanza silenziosa tra chi scrive e chi legge. È proprio questo il grande potere della letteratura: farci sentire meno soli.
Una domanda non strettamente legata al libro: qual è la più grande differenza tra lo scrivere un soggetto per il cinema/televisione e sviluppare l’idea per un libro?
Quando scrivo un soggetto non sono mai solo. C’è uno scambio continuo con altri sceneggiatori, con il regista, con il produttore. È come se costruissi un motore che qualcuno infila in un’auto che poi correrà in pista con l’obiettivo di vincere la gara. Scrivere un libro è tutta un’altra cosa. Quando lavoro a un romanzo al volante ci sono io e basta. Magari non so ancora dove sto andando, ma non importa, lo scoprirò strada facendo. L’unica cosa che conta è non smettere mai di scrivere.