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Abitare il margine estremo

A proposito di “Voragine”, il romanzo d’esordio di Andrea Esposito

di Martina Mantovan / 10 aprile

Un senso di precipizio avvolge il lettore di Voragine, romanzo di Andrea Esposito, finalista del premio Calvino 2017, pubblicato da Il Saggiatore (2018). In questo romanzo ogni cosa tende verso un’inesorabile caduta, rispondendo alle leggi implacabili della perdita ancestrale.

Sotto la crosta di un cielo lattiginoso vive Giovanni, assieme al padre e al fratello. Abitano sul crinale dell’umanità, tra le crepe di una città che si sfalda, nutrendosi dei suoi detriti, confondendosi con essi.

In una terra bruciata dal silenzio, un uomo e due bambini si fanno testimoni del terminale tracollo dell’innocenza. Tutto avviene in un tempo sospeso, un tempo gravido di presagi, caricato a salve e pronto a inghiottire chi lo abita.

La voragine che si apre sotto i loro piedi è quella della negazione dell’innocenza: non può esserci che colpa per chi abita il crepuscolo; è sul tramontare del lume della ragione che tutto si illumina di un bagliore accecante, che confonde e dilava i confini in un indistinto biancore. La morte del fratello e la follia del padre sono gli eventi che strappano il velo, la coltre di residua umanità. Tutti soggiacciono alla crudele necessità, tutti si perdono nel riverbero.

«Allora esce fuori. Fa il giro della casa e va nel cortile dove il padre lavorava ed è assalito dalla vista di decine e decine di forme d’acciaio e avanzi di plastica e scale spaccate ricoperte di catene e seghe conficcate a terra e sbarre di ferro e tubi di plastica che si intrecciano e suggeriscono forme e voci e idee e man mano che le guarda queste forme lo respingono e respingono le idee e le voci come se ciascuna di queste voci o idee potesse imbrigliare e uccidere le forme e le forme restano a roteare in un niente ondeggiante tra abissi e luci brucianti di possibilità».

In un mondo in cui l’essere colpevole è tutt’uno con il darsi dell’esistenza, Giovanni si immerge nei flutti del fato; non c’è alcun limite etico da travalicare: l’esistente viene deposto nel totale appiattimento ontico. L’essere umano si rispecchia negli oggetti inanimati; è anch’esso pedina in balia del flusso storico che lo rende intrinsecamente scarto, residuato, scoria.

Giovanni emerge, granitico rudere tra le rovine, dalle nebbie bibliche, come un cantore apocalittico che, suo malgrado, si ritrova nella condizione di errante: egli attraversa le strade di una civiltà alla deriva, ne segue i tunnel e i binari, stracciando e mostrando le crepe del tessuto urbano. Giovanni trascina la sua solitudine, come un’ombra ruvida e inossidabile davanti alle temperie esistenziali: Giovanni è della stessa materia dell’uomo che marcia giocomettiano. La sua andatura è la medesima: egli sembra essere bloccato in uno iato temporale, in perenne cammino verso nessun luogo. Od oltre ogni punto di fuga.

«Costeggia ancora il fiume. Le gambe si seguono senza sosta allo stesso ritmo marcato. Come se al primo arresto si potesse dissolvere. E guarda il fiume nelle ore che passano e nella luce che si apre. E vede l’acqua crescere oltre i bordi e bagnare la terra a pochi passi. E il rumore dell’acqua che sale come il soffio stolido di un immenso bue. E vede l’acqua d’acciaio gonfiarsi al centro e ai bordi. La vede uscire in piccoli schizzi e ondate. Cammina tra le pozze  e ne respira le gocce».

L’immagine del protagonista prende forma nelle pagine: l’uomo fatto di carne, il suo essere animale nel freddo, la fame, la malattia, si fa via via concrezione e oracolo. Dalle labbra inizialmente serrate di Giovanni sgorga un fiume torbido e infido, un verbo macerato e marcito nel silenzio, che spurga improvviso e incontenibile. Non è il verbo che si fa carne, ma il verbo che lacera la carne.

Giovanni è colui che intona il canto funebre del mondo conosciuto, in un crescente vaticino di miseria e desolazione. La sua profezia è definitiva: non vi è e non vi può essere alcuna palingenesi individuale o collettiva, la condanna è atavica e senza possibilità di redenzione.

L’apocalisse messa in scena da Andrea Esposito non ricompone l’unità tra principio e fine, non dà tregua al tempo e mantiene la tensione tra essi.

«Conosco una storia, dice a nessuno. Un uomo ha fame. Qualcosa lo mangia. Lo mangia da dentro. Non vuole sfamarle. Le cose di dentro. Si cuce la bocca. E io ho chiesto alla voce: Che vogliono dire le cose che mi dici. E la voce non ha risposto».

La struttura paratattica che caratterizza la prosa di Andrea Esposito sottolinea il senso di imminenza e incontrovertibilità di un destino di caduta perenne e irrevocabile, un senso di sprofondamento che avviluppa tutto. Lo scenario, degno dei fotogrammi di Béla Tarr, ingrigisce e normalizza l’orrore, trascinando persone e cose in una spirale da catastrofe annunciata.

Quella di voragine è una scrittura cadenzata e solenne, in cui verbo e silenzio si alternano fino a gonfiarsi vicendevolmente, in una danza solenne e austera. Il senso di miseria a cui pare essere destinato l’umano porta con sé una feroce consapevolezza del tradimento originario, dell’abbandono dell’animalità per farsi carne e dolore. Ed è questo immenso dolore il pungolo della testimonianza, ciò che fa sì che l’uomo continui a errare, anteponendo le sue parole strozzate al monolitico silenzio che su di esso incombe.

«Noi parliamo per non essere inghiottiti dal buio. Poi tacciamo e aspettiamo il buio».

 

(Andrea Esposito, Voragine, ilSaggiatore, 2018, pp. 190, euro 19)

LA CRITICA - VOTO 9/10

Voragine ha una prosa di rara potenza e un ritmo narrativo incalzante. Andrea Esposito firma un romanzo stratificato e al contempo diretto, feroce e tagliente come una lama di ghiaccio.