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Fitzgerald a Parigi

Cosa si nasconde davvero dietro “Il grande Gatsby”

di Antonio Merola / 19 aprile

«Se con Jack London nasce il mestiere dello scrittore, è con Fitzgerald che questo processo si realizza pienamente»: Antonio Merola prosegue l’esplorazione nell’isolamento del romantico americano.

 

«Nei primi giorni di maggio del 1924 i Fitzgerald partirono per la Francia, sul piroscafo Minnewaska, portando con sé diciassette bauli, valigie, borse, i molti volumi dell’Encyclopaedia Britannica, e la figlia Scottie, che non aveva ancora tre anni. Qualcuno aveva detto loro che, in Francia, e specialmente sulla Costa Azzurra, la vita non costava niente, un pasto tre franchi, mentre un dollaro valeva diciannove franchi. Come al solito, volevano risparmiare: un’arte che non avrebbero mai appreso. […] Un amico di Princeton, Lawton Campbell, incontrò i due Fitzgerald sugli Champs-Élysées: “Erano vestiti in maniera così elegante e facevano colpo… Erano belli – la bellezza…”. In un completo dal taglio impeccabile, Scott camminava a fianco di Zelda battendo sul marciapiede un bastone dal pomo d’argento. Zelda portava una tunichetta innocentissima, color azzurro polvere, che aveva disegnato con le sue mani. “Questo” disse a Campbell “è il mio abito da Giovanna d’Arco”» (da Pietro Citati, La morte della farfalla, Adelphi, 2016).

Non ci si può avvicinare alla scrittura di F. Scott Fitzgerald senza (cercare di) avvicinarsi insieme alla biografia dell’uomo: è qualcosa di cui mi sono convinto sempre di più, studiando il rapporto di Fitzgerald con la critica italiana. Il problema per cui questo approccio non è da subito evidente, credo sia legato al fatto che, a partire dai banchi di scuola, chiunque cominci a leggere Fitzgerald si trova tra le mani Il grande Gatsby (1925), forse il romanzo attraverso cui più di tutti gli altri la sincerità biografica dello scrittore viene a prima vista nascosta nel simbolo: cerchiamo sempre infatti di spaziare quanto più possibile «la luce verde» nell’universale, senza mai pensare di ridurla invece al particolare. Ecco perché credo sia essenziale cogliere Fitzgerald in un momento specifico: il suo arrivo a Parigi, che potremmo definire come il momento in cui la parabola della sua esistenza comincia a incrinarsi in una discesa senza risoluzione.

Come mai uno come lui volesse (o dovesse) risparmiare è poco chiaro: se con Jack London nasce infatti «il mestiere dello scrittore», è con Fitzgerald che questo processo si realizza pienamente. Ne abbiamo già parlato in un altro articolo a proposito del rapporto di Fitzgerald con il racconto breve, ma il culmine viene toccato da lì a poco: nel 1929 infatti il “Saturday Evening Post” versa allo scrittore quattromila dollari per pubblicare Alla tua età.

E proprio a Parigi il lavoro si fa quanto mai intenso: «Fitzgerald stava in casa, come un recluso […] Spesso cominciava a scrivere alle cinque di sera: muoveva velocemente la matita su grandi fogli di carta; e restava al tavolo fino alle tre di notte, salvo quando usciva a ubriacarsi ai bistrot di Parigi. Beveva caffè e ancora caffè: dopo cinque o sei ore si alzava dal tavolo pallido e tremante, con ansia allo stomaco, e mangiava qualcosa. Inseguiva un rigore e una spietatezza che non aveva mai conosciuto: aboliva pagine squisite e brillanti, ma senza echi. Creava un’architettura: concentrava, concentrava: cercava l’essenziale, a costo di usare tocchi piccolissimi: ogni linea doveva far sentire un suono nuovo; aboliva e riduceva. Sotto le apparenti fioriture liriche, era esattissimo» (Pietro Citati).

Questo elemento è forse il più importante: quando Fitzgerald arriva a Parigi, cioè, è probabilmente lo scrittore più conosciuto e pagato degli Stati Uniti. Alle spalle ha due romanzi: Di qua dal Paradiso e Belli e dannati. Poco dopo uscirà anche Il grande Gastby. E inoltre, tutti sembrano volere i suoi racconti. Non potrebbe andargli meglio, tanto che «durante una corsa in taxi, un pomeriggio, tra altissimi edifici sotto un cielo rosa e malva, Fitzgerald attacca a urlare a squarciagola perché crede di avere tutto quel che vuole e sa che non sarà mai più così felice» (Ottavio Fatica, Dalla mecca del cinema al giardino di Allah, in Fitzgerald Il crollo, Adelphi, 2010).

 

 

Ma allora la domanda ritorna, ancora più insistentemente di prima: perché doveva risparmiare? Questa volta Pietro Citati cerca di rispondere con una immagine un po’ sbrigativa: «In apparenza il denaro aumentava: i racconti di Fitzgerald vennero pagati sempre meglio […] ma aumentarono molto di più le spese e le mance – mille franchi ad un’orchestra per suonare un pezzo, centro franchi a un portiere per chiamare un taxi». Tuttavia, non si trattava solo di questo: è tipico infatti in Fitzgerald presentire il senso della fine. Direi anzi che tutta la capacità creativa di Fitzgerald si basa quasi esclusivamente su di una enorme sensibilità: leggeva pochissimo, tutto ciò che scriveva gli veniva da quello che lui stesso definiva come «un dono naturale». Sembrerebbe qualcosa di molto simile all’ispirazione romantica, se non fosse che questa stessa ispirazione veniva forzata ogni volta che lo scrittore si metteva al tavolino: in un modo o in un altro, qualcosa riusciva a scrivere.

E il punto è proprio qui: Fitzgerald non si reca a Parigi perché deve risparmiare, ma perché sentiva che molto presto qualcosa sarebbe cambiato. La fascinazione che la Parigi degli anni Venti esercita sia sul pubblico che sulla critica troppo spesso ha forviato l’attenzione sui veri «giganti della letteratura» di questo decennio (il secondo altri non è che Ernest Hemingway). Fitzgerald a Parigi è un isolato: non tanto perché come scrive ancora Ottavio Fatica «Lui perduto lo era, con lui tutta la sua generazione, ma gli altri stavano più in basso. Non si è sporcato mai le mani, solo i piedi», anche se è vero che con la generazione perduta non ha niente da spartire. Fitzgerald è isolato anzitutto perché non ha bisogno di esordire e, in secondo luogo, perché non ha bisogno di consigli, nemmeno se a darli è una autorità come Gertrude Stein; infine, perché il romanticismo di Fitzgerald non può essere imitato: se infatti il romanticismo di London consisteva nella continua invenzione della propria biografia, qui siamo davanti a un vero e proprio romanticismo biografico. Eppure proprio il Romanticismo (quale che fosse il tipo) sembra destinato presto a essere soppiantato da una nuova tendenza: quella del Realismo americano.

Non bisogna tuttavia considerare queste due tendenze (quanto meno allora) come una netta contrapposizione l’una dell’altra: ne parleremo più approfonditamente nel prossimo articolo a proposito dell’influenza che il romanticismo esercita sul primo Hemingway, ma per ora è opportuno considerare che in realtà, nonostante il salotto di Gertrude Stein o il bel esprit di Ezra Pound, anche il secondo altro non è che un isolato. Se a Parigi Fitzgerald «restava al tavolo fino alle tre di notte, salvo quando usciva a ubriacarsi ai bistrot di Parigi» è proprio in Hemingway che trova un (o l’unico) compagno alla pari, nonostante in quel momento non avesse pubblicato nemmeno un racconto su una rivista. E se Hemingway riuscirà a esordire con la Scribner è proprio grazie alla mediazione di Fitzgerald. Nemmeno Hemingway però, a leggere bene quegli schizzi che ritraggono il compagno in Festa mobile, comprende pienamente il rapporto diretto che intercorre tra la coppia reale di Fitzgerald e Zelda e lo specchio della coppia nei romanzi.

 

 

Scrive Ottavio Fatica che «da giovane Fitzgerald ebbe le due o tre esperienze che, si dice, segnino. Come artista non gli resta che ripetersi; imparato il mestiere le racconterà altre dieci o cento volte sotto rinnovata veste fino a quando staranno ad ascoltarlo». Se riprendiamo il romanzo da cui eravamo partiti questo è in parte vero: il trauma di Fitzgerald che deve necessariamente diventare ricco per sposare Zelda si ripete nella ricchezza a tutti i costi di Gatsby. Tuttavia se rapportiamo Il grande Gatsby a ciò che stava accadendo realmente alla coppia, noteremo che il romanzo si concentra su un aspetto forse più melancolico della sola ricchezza da perdere o da conquistare: al gangster non serve più il denaro come conditio sine qua non, perché «la luce verde» non è altro che la normalità di Zelda che svanisce, la sensazione atroce dell’incombenza della malattia. E difatti, Fitzgerald tace poi per dieci anni.

Nel 1934 pubblica Tenera è la notte, ma ormai è uno scrittore dimenticato. Si era venuto a creare un paradosso: tutti volevano da Fitzgerald i racconti pop che erano soliti leggere sulle riviste, perché con il romanzo Di qua dal Paradiso aveva conquistato una intera generazione. Ma quel romanzo non raccontava davvero una generazione: lì veniva ritratto l’incontro con Zelda, che solo per un accidente storico coincideva con l’età del jazz. Così come solo per un accidente la decadenza di Fitzgerald coincide con la decadenza di una nazione (crisi del ’29): in Tenera è la notte infatti, lo scrittore rende pubblico ancora una volta il proprio privato. (E questo articolo allora non può essere altro che un suggerimento: leggete le opere di Fitzgerald in ordine cronologico, oppure non leggetelo).

Ogni romanzo o racconto di Fitzgerald nasce come tentativo di comunicare con (la malattia di) Zelda, di cercare di spiegarsi ciò che non è possibile spiegare se non con una acuta empatia: così acuta che lo porterà all’infarto. Nell’ultimo periodo della sua vita Fitzgerald si reca a Hollywood a fare lo sceneggiatore: è pagato una miseria, nessuno si ricorda di lui. Zelda è ricoverata senza più speranza: è inguaribile, gli ha detto il medico. I racconti non vendono più: Fitzgerald non può che rimboccarsi le maniche, per cercare di pagare le cure della donna. A Hollywood conosce Sheilah Graham con cui comincia una relazione – senza mai abbandonare Zelda: sembra felice, eppure decide di scrivere quello che sarà poi il suo ultimo libro: Gli ultimi fuochi. La trama potrebbe essere riassunta brevemente così: il protagonista Monroe Stahr è un magnate in decadenza nell’industria cinematografica, quando si innamora di Kathleen, una donna che cerca di fare fortuna nel cinema e che gli ricorda la moglie morta da cinque anni. Così tanto che, mentre Fitzgerald scrive il sesto capitolo, viene colpito da un infarto. Pochi anni prima, nel 1937 si era spedito da solo una cartolina postale: «Caro Scott – come stai? Avrei intenzione di venirti a trovare. Abito al Giardino di Allah [quello che era il suo albero]. Il tuo Scott Fitzgerald».