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Libri

L’inferno è vuoto,
il mondo è pazzo

A proposito del nuovo romanzo di Giuliano Pesce

di Giovanni Bitetto / 29 maggio

C’era un tempo fra i Novanta e i Duemila in cui la letteratura italiana passava una sbornia di narrazioni sopra le righe, esperimenti formali arditi, uso spregiudicato della finzione come categoria primaria.

Erano i tempi dei Cannibali, o degli scrittori minimum fax che guardavano al postmodernismo americano come un giardino in cui giocare liberamente, ritrovando degli strumenti che, secondo loro, potessero dire qualcosa del mondo contemporaneo, o addirittura agire sulla realtà. Si credeva che quel tipo di letteratura fosse la giusta risposta a un reale sfuggente, masticato dall’universo totalizzante dei media, il simulacro era una categoria che si affermava con prepotenza, lo scrittore si misurava sul terreno delle proprie potenzialità espressive, ricalibrava gli strumenti per esperire il reale.

I figli cresciuti letterariamente negli anni Ottanta, e dunque sotto l’egida di Tondelli, adottavano lo sguardo saturo di cinema e tv e attraverso esso rimodellavano l’ambiente circostante, non solo guardando alla gioventù come il maestro tondelliano, ma riconsiderando la società tutta. A ben guardare quella stagione – pur essendo generatrice di una certa freschezza – non aveva niente di nuovo, né era poi così ardito approdare ai lidi della letteratura americana, si trattava dell’ultima propaggine di un movimento culturale – il postmodernismo – che scavava il proprio solco a partire dalle neoavanguardie degli anni Sessanta.

Non sono dovuti passare molti anni: le novità – di sguardo, stile, riferimenti – di Nove, Scarpa, Genna, Pincio, Lagioia e tanti altri, sono state celermente digerite dal panorama italiano. Presto l’autofiction è sorta come categoria ibrida, in egual percentuale reale e fittizia, in grado di narrare le nostre esistenze come continua frattura fra ciò che è e ciò che percepiamo.

Allo stesso modo sono tornate quelle scritture realistiche che cercavano di opporsi – non so quanto vanamente – a un mondo fatto di pinzillacchere, meta-livelli, ironia corrosiva.

Non so dire quale sia il panorama odierno: persino all’interno della poetica dei singoli autori si possono individuare vettori che vanno in direzioni differenti, come sempre occorrerà qualche anno per storicizzare le scritture di questi anni Dieci.

Una cosa però mi sembra evidente: nei cascami del tragicismo dell’autofiction, nelle sempre floride epopee familiari, nelle ricostruzioni storiche del tempo che erano, nei libri di genere zeppi di personaggi cinici e disillusi, manca una categoria agitata al tempo della postmodernità imperante, e poi – di contro – demonizzata come fosse una cedevolezza: la categoria del gioco. Paradossale, perché in un tempo in cui il patrimonio simbolico di ciascuno è formato in gran parte da cianfrusaglie di un immaginario collettivo confuso, trafficare con i simboli e le narrazioni dovrebbe risultare naturale. Voglio quindi parlare di un narratore – giovane ma già al suo terzo libro – nelle cui storie ritroviamo l’entropia di una contemporaneità non per forza apocalittica, ma suggestiva, ricca di potenzialità visionarie.

È il ritmo a scandire le storie di Giuliano Pesce: così era per Io e Henry, così è in L’inferno è vuoto, (Marcos y Marcos, 2018). Uno stile narrativo agile e ironico che si trascina dietro mille riferimenti culturali, e il turbine di azioni dei personaggi, mascherando le avventure da vicende picaresche, o adottando atmosfere di genere, fra il poliziottesco e il noir. Il ritmo è il metronomo di ogni capitolo, di ogni avvenimento sulla pagina, il tempo perfetto dei molti dialoghi che esplodono in battute brillanti.

Il romanzo di Pesce inizia in maniera spiazzante: il Papa si suicida buttandosi dal balcone di San Pietro. Siamo già in un mondo altro in cui l’ordine ha abdicato, viene meno una figura dell’immaginario collettivo, dalla realtà senza gerarchie possono affiorare simboli e personaggi disparati, trame intricate e assurde, avventure dalla morale corrosiva.

Affilata è anche la lingua di Pesce, che parodia la realtà, connettendosi con la nostra parte più cinica: «Gli hashtag #Papabuono, #Volatoincielo e #Comeunangelo sono diventati trending topic su Twitter in meno di otto minuti dal Grande Salto; Facebook è stato invaso da meme che riportano le frasi più celebri del pontefice. Milioni di persone hanno pianto in diretta su Instagram. In un lampo sono comparse schiere di nuovi cattolici in tutto il mondo».

Questo evento epocale, che fa precipitare il mondo di un limbo, si pone come il motore che dà il via all’azione: due sono le storie intrecciate in maniera elicoidale. La prima è quella di Fabio, impiegato frustrato di una casa editrice che ha la sua grande occasione: poter scrivere un reportage sulle motivazioni che hanno spinto il Pontefice a suicidarsi. A causa della sua ricerca Fabio si addentrerà nel demi-monde della Roma papale, fra prelati assetati di potere e macchinazioni occultate dal mondo dello spettacolo. In questa linea narrativa si respira il mistero e l’assurdità, gli universi di cartapesta del potere che celano rapporti di dominio reali.

La seconda linea narrativa segue le vicende di Alberto Gasman, faccendiere della malavita che deve vedersela con il suo capo, il Cobra, e con la dipartita di un presentatore televisivo, Willy Carnaroli, stroncato da un’overdose di cocaina. Questa storia si srotolerà fra colluttazioni e inseguimenti, all’affannosa ricerca di una misteriosa figura femminile. In tali frangenti Pesce, sicuro della sua penna estrosa, adotta il genere, creando un mondo fumoso, debitore di un’urbanità onirica che ricorda la Milano degli anni Settanta, e rimpinzandolo delle visioni psichedeliche di una contemporaneità in cui l’immagine è più vera del vero. Seguire il saliscendi nella prosa dell’autore significa lasciarsi affabulare da un trama piena di svolte e doppi fondi, sinuosa come l’ordine di un cosmo che vive solo delle leggi di chi lo descrive.

Giuliano Pesce si comporta come uno sciamano dell’immaginario, rimestando nella soffitta dell’estetica cinematografica, del racconto televisivo corroso e cambiato di segno, dell’onirica realtà che si costruisce giorno per giorno attraverso i mezzi di comunicazione di massa, delle citazioni letterarie usate con acume. Un mare di riferimenti che ricorda la bellezza infantile delle costruzioni: ogni capitolo si struttura come un mattoncino di un’architettura spregiudicata, che corre verso la fine facendoci dimenticare di essere aggrappati a un ottovolante lanciato nell’ignoto.

 

(L’inferno è vuoto, Giuliano Pesce, Marcos y Marcos, 2018, p.250, 18 euro)

LA CRITICA - VOTO 8/10

Un romanzo che punta sul ritmo e sulla trama, una storia assurda che affascina per la sapienza con cui è raccontata, senza dimenticare il debito con il noir.