Musica
Resistere a Calcutta
"Evergreen", il nuovo album di Edoardo D'Erme
di Giada Ferraglioni / 30 maggio
Evergreen si apre con la domanda in un versetto colloquiale in “Briciole”, «ti ricordi?» , e si chiude con due versi più ambiziosi in “Orgasmo”: «In che punto finisce la nebbia in questa pianura / dove perdersi quando fa buio mi fa paura». Nel mezzo c’è l’impressione che, per parafrasare quella famosa espressione ormai di senso comune, Calcutta non sia nella nebbia ma sia la nebbia. «La mia filosofia», dice Edoardo D’Erme (vero nome di Calcutta) in un’intervista al Pigneto con Gianni Santoro, «è meglio un giorno da pecora che cento da leoni».
Da quando l’itpop ha iniziato quel ricambio generazionale che tanto viene sbandierato dai critici ma che per nulla viene rivendicato dagli artisti in questione («Ma no, ma chi avremmo messo da parte?»), si è andata via via costruendo l’idea che questa ascesa di nuovi nomi coincidesse con una rivoluzione artistica del pop italiano. Per quanto possa sembrare assurdo, pare sfuggire costantemente che l’unico cambiamento rintracciabile sia da individuare all’interno delle condizioni di contingenza narrativa. Il metodo formale del pop, al contrario, continua a perseverare nel suo essere, laddove per metodo del pop (o meglio, di un certo tipo di pop figlio dei nuovi rapporti di produzione) si intende l’intento di rispecchiare esattamente lo stato delle cose .
Il titolo dell’ ultimo album di Edoardo D’Erme, Evergreen, a tre anni di distanza da Mainstream, non sembra una casualità. I testi si mostrano legati a doppio movimento con la realtà, per cui sia la rispecchiano sia la perpetuano . Basti pensare all’effetto di «Oh mondo cane / tu fatti gli affari tuoi» in “Kiwi” o di «We deficiente» in “Pesto”. Per quanto sia un punto di partenza scomodo, il merito di D’Erme, nonché il motivo per cui volente o nolente si garantirà il timbro sul presente e sul futuro, sta proprio nel riportare un modo reale e usuale di vivere, di aver raccontato la cultura dominante tramite l’autonarrazione – in un momento storico in cui la tecnologia permette la coincidenza massima tra ricerca artistica e ricerca di sé.
Con buona pace di chi tenta di costruire controculture artistiche per resistere al “dato” e creare un “darsi”, bisognerà ammettere anche quest’anno che un certo tipo di Pop, quello calcuttiano in primis, rinuncia nel proprio manifesto alla funzione scardinante dell’arte. Incastonandosi nel minimo comun divisore del presente, rinuncia a voler riaprire quello che la realtà ha momentaneamente chiuso. Ciò che resta è la dimensione anestetica dell’album per cui va bene questo o il suo opposto, un sì o un no, mantenendo in vita la bugia di sempre, quella vecchia come il mondo che chi dice cose vaghe e disinteressate ha in realtà capito qualcosa di più.
Si potrebbe obiettare che l’arte è arte quando coincide con la realtà. Ma è un’obiezione fiacca, se non assolutoria: pretendere che ci si arrenda all’idea che la partita creativa si giochi sul vestire meglio certe condizioni d’esistenza piuttosto che sul metterle in discussione, sembra un tantino troppo. Ed è proprio l’atteggiamento provinciale dell’album a traboccare dai bordi della tracklist (più che il racconto della provincia, come alcuni hanno ingenuamente scritto). Quell’attitudine che cementifica l’immaginazione, che azzera gli slanci vitali, disillude, disincanta, uniforma, ridicolizza l’eccentricità e disinnesca i dispositivi schizofrenici di fuga; che stabilizza e mai sovverte. Una passività di ricezione verso quello che ci è concesso , un pigro percorso di accettazione del nulla che non solo rischia di diventare cronico, ma lo auspica. In altre parole, abusando di Houellebeq, Evergreen è la conversione del dominio della lotta in quello dell’adattamento. È un atto di sottomissione.
LA CRITICA - VOTO 6/10
Evergreen è un disco dall’enorme appeal che va via come l’acqua. L’obiezione di fondo, però, rimane più valida che mai.