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E tutto il meglio (ri)cominciò da una caduta

“Sentieri neri” di Sylvain Tesson

di Cristiana Saporito / 3 luglio

Il suo sorriso inizia al centro, come un arco infilzato da uno specchio. L’altra metà diffida, disapprova e cola a piombo fino al mento. Con quella posa schizoide, sfregiata da un ghigno cucito in fil di ferro, Sylvain Tesson s’affaccia beffardo sulle reti francesi. Per chi non la conoscesse, diffonde la sua storia.

Lui che ha solcato la Siberia come un comune mortale programmerebbe un giro al parco, lui che ha sostato per sei mesi sulle rive del lago Bajkal, pizzicato dalla tundra e dalle nuvole, quello stesso lui si è sfracellato giù da un tetto, riportando fratture in luoghi del corpo a cui prima non aveva neanche pensato.

Ha accatastato lunghi mesi d’infortunio. Giorni indistinti imbiancati d’attesa, giorni azzimati di biancheria d’ospedale. E da quel letto infossato di noia è sgorgata una promessa, un progetto di ennesimo viaggio. Se si fosse rimesso in piedi, con quegli stessi piedi ritornati alla terra avrebbe attraversato la Francia. E per di più una Francia imprevista, ruvida, sfuggente, quella dei chemins noirs, ovvero appunto dei Sentieri neri (Sellerio, 2018).

Quei lembi di strada selvatica, mai asfaltata, mai battuta da pretese di possesso.

Mulattiere, viottoli oscuri, snodi d’impronte. Mappe tracciate da intenzioni di cervi o stambecchi.

Dalla Provenza alla Normandia, Tesson si prefigge di salire sul midollo inesplorato del Paese. Di cavalcarne il dorso. Tutto ciò che la civiltà smaniosa non ha potuto asservire al suo controllo viene eletto obiettivo di un percorso. Che è sfida e rinascita. Cerimonia e avventura.

Così è stato. E le sue ostinazioni si sono fatte libro. Ma soprattutto diario di bordo. Si procede in diagonale, da sud-est a nord-ovest. Si parte ad agosto 2015 dalla valle della Roia.

Sono pugni di case scoscese, villaggi brulli e monastici dove una volta di chiesa gli offre penombra come fosse acqua di fonte.

Tesson dorme dove può («Ero tornato nel mio giardino preferito, un bosco sotto le stelle»), sotto un soffitto di foglie o nel riparo inaspettato di qualche folle eremita, che dichiara inorgoglito fin dalla targa d’ingresso «Non abbiamo il wi-fi ma abbiamo del vino» oppure «Accetto solo pane secco e libri».

Sprofonda e sguazza in quel tessuto di nazione definito amaramente dalle istituzioni come “iper-rurale”, non addomesticato. «Per loro la ruralità non era uno stato di grazia, ma una maledizione».

Secondo un rapporto compilato per volere di uno dei primi ministri della quinta repubblica sul piano di sviluppo delle campagne, esistevano aree resistenti all’avvento del nuovo, trattate come malati recalcitranti a ogni specie di terapia concreta. «Presto, grazie all’azione dello Stato, la modernità sarebbe dilagata nei campi […] Perché quello era il fine recondito: assicurare la conformità psichica di un popolo impossibile».

Sylvain Tesson, incallito e felice, si muove contro. Controvento, controcorrente, contro la volontà antropizzante. E ancora di più contro le scosse epilettiche che gli elettrizzano il sangue e lo lasciano al suolo inerme e svuotato: «Una sorta di maleficio era apparso all’orizzonte, una macchia nera che si spandeva in me come l’inchiostro della seppia quando intorbida l’acqua del mare». L’autore trema sul terreno lavico.

Ma prosegue la sua marcia, con i libri come unici compagni. Agisce e respira esattamente come quei sentieri. Serenamente nonostante.

Incontra anime streganti: pastori diffidenti, montanari di quasi nessuna parola, perché non ne hanno bisogno, perché tutto quello che devono dire e sapere sta già nei loro passi, nelle stagioni del cielo, nelle rughe di corteccia. Loro sanno leggere, loro che conoscono e interpretano ogni muschio, ogni fungo, ogni arbusto, colore e rumore degli alberi. Loro sono i tesorieri di una capitale vivente. E non monetizzabile.

Probabilmente non è un caso che un testo del genere si affacci e c’incanti in un momento come questo.

Di scambio alluvionale, comunicazione continua. E sterile, come sta diventando il genere umano, almeno quello occidentale. Profluvi di messaggi che incollano gli occhi a uno schermo e niente di vero sotto il sole. Perché il sole si preferisce in foto. Si preferisce raccontarsi che “esistersi”. La migliore versione di sé, iper-social e falsamente integrata. A volte viene da pensare se l’uomo contemporaneo si sentirebbe più nudo svestito o senza telefono. Sicuramente sarebbe disarmato, costretto ad affrontare a viso aperto i brandelli di tempo “libero”. O i viaggi sull’autobus.

Forse non è un caso che un esempio come quello di Tesson, padre di altri libri altrettanto affascinanti come Nelle foreste siberiane o Beresina e ultimamente di Un’estate con Omero, possa insegnarci qualcosa ben al di là delle sue pagine. Un uomo che, come uno dei protagonisti della sua raccolta di racconti Abbandonarsi a vivere, ha deciso di non lasciarsi mortificare dal destino, di ricominciare a esistere risorgendo dalla sua paresi, fronteggiando i rischi e le punte delle sue imperfezioni, gli angoli incavati di una bocca che non sente l’urgenza di correggere su Instagram. Un uomo che si narra senza ostentazioni, con la franchezza delle sue scelte, con la stessa materia di cui è composta la vita. Scabra, tagliente, sempre irregolare.

Innamorata dei silenzi necessari, del fruscio delle orme sul bagnato, di facce segnate dalla stanchezza di cose umili e profonde. È grazie a libri come Sentieri neri, come la piccola gemma Ascoltare gli alberi di Henry David Thoreau, come Camminare di Erling Kagge, primo uomo a raggiungere da solo l’Antartico, o come il suggestivo Dove soffiano i venti selvaggi di Nick Hunt, fortunatamente pubblicati o ristampati in questi ultimi mesi, che abbiamo ancora un’occasione di confrontarci con un interlocutore che non sia il nostro ombelico, ma il ventre enorme e maltrattato che continua ad ospitarci. Un’occasione per capire cosa rimane della nostra essenza nell’assenza di ciò che reputiamo essenziale.

Strepitosa e nutriente quest’ennesima perla di un volume inondato di poesia: «C’è chi fa di tutto per apparire nella Storia; io mi accontento di scomparire nella geografia».

 

(Sylvain Tesson, Sentieri neri, trad. di Roberta Ferrara, Sellerio, 2018, pp. 188, euro 15)

LA CRITICA - VOTO 9/10

Sylvain Tesson ci regala un viaggio lirico, personale e universale, un tragitto attraverso le vertebre inviolate della Francia per riallacciare i legami con un tempo privato, lontano dalle maglie dei socialmedia e delle ansie quotidiane.