Musica
Cantare sempre la stessa cosa
“Punk” di Gazzelle e la musica sempre uguale
di Luigi Ippoliti / 5 dicembre
La matrice è sempre la stessa: Calcutta. Gazzelle è una delle tante creature uscite dopo il successo del cantante di Latina che ha tracciato questa via di cui oramai non si conoscono argini e orizzonti, indefinibile ma facilmente riconoscibile: come il giudice della corte suprema Potter Steward nel 1964 diceva di non saper definire cosa fosse la pornografia, ma «La riconosco quando la vedo», così vale per l’itpop: semplicemente la si riconosce quando la si ascolta. Gazzelle incarna, ora, il cento per cento dell’itpop: è emerso, non è uno sconosciuto completo, non è fuori categoria come Calcutta o i Thegiornalisti. Epigono calcuttaforme nei testi, nella proposizione di sé al mondo, nell’atteggiamento, nella dimensione complessiva, nello spessore e nello statuto, Gazzelle ha saputo inserirsi in questo filone e a farlo suo. Capitando al posto giusto al momento giusto, si appresta a seguire il percorso del suo collega con il suo nuovo lavoro, Punk.
Da Calcutta ha tirato fuori il disincanto e la disillusione che trapela nell’insieme comunicativo: esserci ma non voler esserci per percepire la necessità della propria presenza/assenza da parte degli altri, un morettismo privo di apparato intellettuale. Chiaramente dalla scrittura un certo minimalismo da cameretta, diverso da quello de I Cani nella spinta creativa, un diario per ventenni-trentenni che giocano a crogiolarsi in un’adolescenza eterna, che si rispecchia proprio nei costrutti e nelle architetture sintattiche, nella scelta del lessico, dell’uso basilare di metafore e similitudini. Si parla di amore, di relazioni, di difficoltà, di bellezza: le canzoni di Gazzelle sembrano scritte da una persona qualsiasi che sta vivendo quelle situazioni, non da un artista che dovrebbe tirare fuori da tutta la realtà di quelle situazioni tutta la potenza artistica che può tirare fuori.
Come in Calcutta, è continua, più che una presenza, una finta indole alla Lucio Battisti: un disimpegno mal interpretato che finisce per fraintendere il messaggio originale. Come il cantante di Poggio Bustone reagiva all’impegno dei grandi cantautori italiani con il suo disimpegno, oggi bisognerebbe rispondere con l’impegno. Altrimenti, fatto in questo modo, è solo omologazione, è scrivere per slogan, per tag, per meme.
Si captano spunti alla Brunori (di conseguenza, chiaramente, a Rino Gaetano. Un Rino Gaetano addomesticato, mansueto), ma senza grossi risultati. Riesce meglio il tentativo di scrivere un pezzo alla Tommaso Paradiso (“Sopra”), forse più alla portata del cantante romano; ma la grande hit, se è di questo di cui parliamo quando parliamo e parleremo di Gazzelle – una hit band – , non c’è ancora.
Gazzelle non ha quella padronanza dell’immagine dei The Giornalisti, non è il pioniere di quello che è oggi come Calcutta, non è uno sperimentatore alla Iosonouncane, un cantautore come Francesco Bianconi. Ha le sembianze di un caso. Le canzoni di Gazzelle sono le protagoniste di un più o meno futuro Sanremo che dal basso ha spodestato i vari Baudo-Fazio-Baglioni e ha creato qualcosa che sarebbe dovuto essere completamente diverso, ma che fondamentalmente è uguale.
Punk di Gazzelle è anche la delusione dell’amore quando la propria capacità di darsi all’altra ne è il perno: lo faceva ad altri livelli Dente dieci anni fa, altre premesse, altra profondità. Chiaramente non è buttare fango sulle nuove generazioni, anzi – il già citato Iosonouncane ha scritto con Die una delle cose migliori degli ultimi quindici anni. È rendersi conto che c’è un tipo di fermento per cui certi album iniziano a essere pensati unicamente per piacere al pubblico: scrivere ciò che la gente vuole sentirsi dire. Facendo così, si perde sempre qualcosa.
LA CRITICA - VOTO 4,5/10
Gazzelle avrebbe potuto uno dei possibili innovatori della nuova ondata indie/pop italiana. Invece, con il secondo album Punk, ha scelto la strada più comoda, sicura e, probabilmente, redditizia.