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Libri

La sfida di tradurre scintille

“La bambina che amava troppo i fiammiferi”
di Gaétan Soucy

di Cristiana Saporito / 14 maggio

«Un lavoro di formica e di cavallo». Così Natalia Ginzburg condensava il senso funambolico della traduzione, incidendo il corpo vivo dell’opera di Proust. Quel tradimento alchemico e irrinunciabile senza cui come sosteneva George Steiner «abiteremmo province confinanti col silenzio». Restituire e restare infedeli, perdere e salvare, in un travaso di frammenti che conservi l’intero. In pochi libri come in quest’ultimo piovuto tra le grinfie la tensione incandescente di chi passeggia su una faglia inquieta come quella del linguaggio è un elemento che non si può solo citare in corso d’opera. Perché ha la forza detonante di una fatica primordiale. Un rischio estremo, che può ripartorire un testo, o condannarlo a balbettare.

Francesco Bruno, traduttore di Jean Michel Guenassia, Jean Giono ma anche dell’alter ego di J.K. Rowling Robert Galbraith, ha svolto una missione. E pur mutandola non l’ha scalfita. Una missione con un titolo che giura faville, La bambina che amava troppo i fiammiferi del canadese Gaétan Soucy. Uscito in versione originale più di venti anni fa e apparso in Italia nel 2003, ma non baciato dalla giusta attenzione, riaffiora oggi con una nuova pubblicazione sempre per i tipi di Marcos y Marcos.

Storia maligna, favola nera, incrudelita dalla tenerezza della sua sorgente. A raccontare è una voce adolescente, cresciuta dentro un incubo scambiato per realtà. Il suo territorio vitale è tutto un’enorme allucinata distrofia familiare. Non c’è niente di vagamente normale, per quanto la normalità sia affidabile come contenitore, in ogni spiffero del suo resoconto, in ciò che riferisce, in ciò che omette, e in ciò che si mescola nel suo asse mediano.

Ci sono due figli, che si chiamano “Fratello” l’un l’altro, perché altri nomi non sono necessari e la vicenda s’innesca quando il loro padre muore. «Mio fratello e io abbiamo dovuto prendere l’universo in mano una mattina poco prima dell’alba perché papà era spirato all’improvviso. La sua spoglia contratta in un dolore di cui restava soltanto la scorza, i suoi decreti finiti di colpo in polvere, tutto ciò giaceva nella stanza al piano di sopra da cui papà, ancora soltanto il giorno prima, ci comandava in tutto e per tutto».

Questo patriarca/aguzzino fino all’ultimo legifera e possiede l’esistenza dei suoi due discendenti, segreti compresi. Li esilia in un castello diroccato come i loro scheletri, stabilisce norme impossibili, distribuisce «busse» se si accorge che sono disattese. Li lascia arenati in uno stato brutale, da cui solo uno dei due riesce a emanciparsi.

Tuffandosi nei dizionari della sua biblioteca, leggendo Spinoza e Saint-Simon e poi impugnando il suo incunabolo. L’altro è un fratello grezzo, primitivo, frustrante nella sua lentezza («tutto e sempre delude in mio fratello. Non si può sognare con lui»). Così, quando restano soli e immolati al loro squilibrio, non rimangono che le parole, quelle che filtrano l’orrore e la sconcezza di un passato fangoso che spenna lo scandalo poco a poco, fino a disvelarsi nelle ultime pagine.

È un vocabolario eccezionale, guizzante, frutto di un’urgenza, di un istinto e di una naturale vocazione alla libertà. «Cucuzza», «sanguinaccio», «catalessina», sono solo alcuni esempi per plasmare una dimensione intima e creativa che oscilla da pendolo perfetto tra forme scabre e raffinatissime; una sferzata fiabesca di acrobazie espressive difficili da rendere potabili, architettate come meccanismo di difesa e riscrittura del vissuto. Una creatura a cui è stata negata presenza materna, identità sessuale, limpidezza di legami familiari, relegata in una capsula distopica avara di qualunque dolcezza.

Eppure, malgrado l’abominio accovacciato in ogni angolo di trama, si resta stregati dalla sua Weltanschauung, quella visione del cosmo velata di epico stupore, che riesce a custodire una forma d’incanto, a sperare nell’amore di un uomo narrato come un cavaliere, a sopravvivere alla morte della legge cercando una bara per suo padre, a farsi culla di una nuova vita.

Mass media e letteratura sconcertano di scampoli oscuri, paradigmi d’infanzia straziata che sputano schegge sopra o sotto la pelle. Raramente come in quest’ultimo periodo l’editoria ha ospitato romanzi di “mal-formazione”, come i recenti Salvare le ossa di Jesmyn Ward, Mi chiamo Irma Voth di Miriam Toews, L’educazione di Tara Westover, Mio assoluto amore di Gabriel Tallent e non sorprende che i soggetti intrappolati in un mondo distorto (da ossessive affettive o religiose) siano spesso bambine, private di scelte essenziali, di strade aperte su cui incallire i piedi e le vittorie.

Finzioni ben cesellate, che echeggiano episodi forgiati perfino meglio nel mostruoso, quelli appollaiati ogni giorno in cronaca nera, a ricordarci che quella tra i sessi è ancora una guerra, che lo scarto tra ciò che vorremmo e ciò che tocchiamo è più tagliente del desiderio. Donne che fanno paura, da quando iniziano a esistere, che sarebbe più comodo rannicchiare in un forziere ed estrarre alla bisogna.

Ma invece no. Invece si scrive, come fa Gaétan Soucy, che ci ha lasciato troppo presto, con pochi romanzi allattati di promesse. Di lui, nella sezione biografica all’interno del sito di Marcos y Marcos è riportato che abbia avuto «un’infanzia senza storia». Chissà, se in quelle crepe non documentate, è vissuto un bambino che amava i fiammiferi, innamorato del buio e dei suoi strappi, che è diventato adulto per consegnarci il paesaggio dietro ogni fessura.

 

(Gaétan Soucy, La bambina che amava troppo i fiammiferi, trad. di F. Bruno, Marcos y Marcos, 2019, pp. 192, euro 16, articolo di Cristiana Saporito)

LA CRITICA - VOTO 8/10

Torna in libreria un romanzo dalla rocambolesca bellezza, la macabra avventura di chi cresce dentro uno stomaco cupo e allucinato e riesce a ritagliarsi un brandello di salvezza grazie al potere della parola.