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Libri

Diario di un letargo ostinato

A proposito di "Il mio anno di riposo e oblio" di Ottessa Moshfegh

di Cristiana Saporito / 23 settembre

Folgorata. Letterariamente. Mi aggiro come un batterio nella gola imbandita di una libreria, il mio solo eccellente terreno di caccia. Per lavoro, per contagio. Peccato che la preda sia io. E poi incappo in un titolo sospeso a metà tra la beffa e la rivelazione: Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli, 2019) di Ottessa Moshfegh.

Per gli asteroidi di sguardi schiantati più o meno per caso ogni giorno in direzione di qualche copertina, nulla di strano. Ma per chi come me è nuovamente mamma da circa un mese, per chi sa che l’anno prospettato dagli astri prevede creme a base d’insonnia e impacchi d’isteria, la reazione di fronte a uno stimolo dal retrogusto quasi fantascientifico poteva essere la fuga rabbiosa o il canto di sirena. E il seguito è un finale già scritto. Lo stesso che ultimamente mi affanna il comodino di altri testi profetici, come Sonno bianco di Stefano Corbetta o il meraviglioso Chiamalo sonno di Henry Roth.

Una storia bizzarra, sfacciatamente improbabile e spocchiosa. Racchiusa nella bolla dell’Upper East Side di Manhattan di quasi vent’anni fa.
La protagonista è una ragazza dichiaratamente fortunata, almeno sotto alcuni aspetti. Ha il privilegio della bellezza (elemento ribadito senza sosta, quasi nel timore lo si potesse dimenticare) e della stabilità economica, percependo una rendita che le scorre addosso come una pioggia di mezza stagione.

D’altronde non è tutto, d’altronde non le basta. Le sue ombre sono carnose. E carnivore. Hanno il volto di suo padre, sbocconcellato da un cancro che ha lasciato in mezzo agli altri soltanto la sua larva. E quello della madre, anche lei bella e sfinita, con la mano incollata al bicchiere, disturbata dall’impaccio della malattia di suo marito. In poco tempo li perde entrambi, il primo senza alcuno stupore, la seconda perché cedere è più facile che resistere e addormentarsi (per sempre) è la soluzione più ammiccante. Tentazione geneticamente tramandata, a quanto pare. Il risultato è una donna fragile, apparentemente anaffettiva, che non presta fianco e cuore a nessun colpo di vento, che decide di rintanarli sotto un lenzuolo.

Il suo piano è chiaro: narcotizzarsi, ibernarsi un anno intero in un bozzolo di sonno indotto, per poi rifiorire magicamente dalla carcassa del suo abbandono. Per farlo si affida alle alchimie farmacologiche, ai prodigi che le combinazioni di ansiolitici e calmanti possono sortire sulla sua coscienza: «Raggiungere quello stato richiedeva grandi dosi di Seroquel o litio mischiate a Xanax, e Ambien o trazodone, e non volevo esagerare con quelle prescrizioni. C’erano calcoli raffinati per somministrare i sedativi. In genere l’obiettivo era arrivare a un punto in cui potevo scivolare alla deriva facilmente e tornare in me senza spaventarmi. I miei pensieri erano banali, il battito casuale».

Incontra come traghettatrice una dottoressa squinternata e compiacente, che non si accorge dei suoi stratagemmi per ottenere la bramata quiete chimica e dimostra per altro una lodevole soglia di sopportazione a tutta quella tempesta di effetti. Complice un discreto coefficiente di ipocondria, non mi sarebbe difficile immaginare che potrei rischiare l’emiparesi facciale nel giro avvitato di un paio di pasticche; eppure il suo progetto procede. E lei resta bionda, seducente e votata alla sua causa.

Certo, non mancano gli impedimenti.
C’è soprattutto la sua amica Reva, che vorrebbe emularla ma con esiti grotteschi; mai abbastanza bella, mai abbastanza magra e pronta ad esibire la propria inconsistenza con disinvoltura, diluendola in qualche bibita dietetica. È l’unico legame umano che trapassa goffamente il suo esoscheletro, l’unica mano che bussa sul suo esilio. Ma è patetica e per questo respinta o avvicinata con sospetto.
Niente può sabotare il suo programma e quando a tenderle un agguato è proprio il medicinale tanto agognato, il potente Infermiterol, che la porta a commettere azioni a sua insaputa, mentre tutte le sue stanze galleggiano nel buio, decide di barricarsi in casa, di farsi sigillare dall’esterno e aspettare che il tempo si cementi sui suoi muscoli, che la crisalide compia il suo corso.
Insomma, che la sua diventi una casa del sonno.

Ma c’è di più. In quell’anfratto ultramondano che è la Manhattan del 2000, tra gallerie d’arte dove presta servizio come segretaria e party sfrenati in cui dissennarsi nel gregge degli eletti, la sua prigionia autoimposta si fa oggetto di performance artistica. Viene filmata per sei mesi mentre lei dorme e rinuncia ed esistere. Tutto, compresa la sua sparizione, viene risocializzato, rigurgitato in un ventre di spettacolo. Anche l’isolamento, anche la negazione di ogni forma interattiva, se mostrati a dovere, cambiano linguaggio e sono solo merce esposta.

La bislacca vicenda di questa hikikomori in salsa occidentale si conclude l’11 settembre del 2001, con Reva risucchiata nella polveriera del World Trade Center, con una traccia d’universo riscritta con dolore e per sempre. E la protagonista è costretta a rinascere, da ceneri che non sono soltanto le sue.

Ottessa Moshfegh, tra le nuove voci della narrativa americana come Lauren Groff, Catherine Lacey ed Emma Cline, costruisce in Il mio anno di riposo e oblio una trama originale, con un approccio sprezzante e irriverente, trattando come un gioco in scatola disfunzioni emotive e alienazioni d’azzardo. Provocazione letteraria o denuncia dissacrante?
La risposta vi terrà svegli. Anche senza neonati ribelli. Almeno fino all’ultima pagina.

 

(Ottessa Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, trad. di Gioia Guerzoni, Feltrinelli, 2019, pp. 240, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)

LA CRITICA - VOTO 7,5/10

Con un mostruoso cocktail di farmaci, una giovane donna pianifica un intero anno di sonno per rifugiarsi dal mondo incapace di attrarla. Parabola insolente di una nuova Bella addormentata che non aspetta nessun principe.