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Un testamento col retrogusto del capolavoro

A proposito di “Le furie” di Janet Hobhouse

di Cristiana Saporito / 7 ottobre

Philip Roth la visitava di notte. Da solo, da fantasma paffuto. Mi piace immaginarlo così, infagottato e solenne, che si accovaccia davanti alla lapide e avvolge intorno a quei minuti uno scialle di silenzi. Luminoso come un gioiello. La morte prematura della sua amica a amante Janet Hobhouse l’aveva tramortito e inaugurò per lui un’usurante ricerca dell’ultima casa, il posto ideale per seppellire lo scrittore che sarebbe sempre stato.

Si potrebbe cominciare da qui, ovvero dalla fine, nevicata per lei troppo presto, a poco più di quarant’anni nel 1991, quando probabilmente avrebbe ancora avuto moltitudini da raccontare. Ma l’autrice, nel suo romanzo pubblicato postumo, Le furie, già uscito per Rizzoli ed ora per Neri Pozza, con la stessa scintillante traduzione di Ada Arduini, sceglie un punto più lontano.

La Hobhouse rovista tra le sue radici e poi si ricapitola dipanando una storia che la precede e la ingloba come sequenza di un processo a catena chiamato Famiglia.
È, neanche a dirlo, una vicenda di donne. Maiuscole, ingombranti, voraci. Imperlate di fascino o di fragilità ancestrali; ciascuna è un anello di un collier che abbaglia facilmente ma che è ancor più bravo a strangolare. «Ciascuna di noi ha condotto una vita imperniata sull’esistenza di una madre buona e una cattiva, un fato dal viso di donna che esordiva con un sorriso e poi diventava carnivora. “Mamma”, “nonna” erano solo i termini intercambiabili con cui ognuna di noi identificava il suo angelo o la sua gorgone privata, e contro cui portava avanti la propria guerra per la sopravvivenza».

Anatomia di un album privato, quindi. Partendo da Mirabel, la capostipite, privata del miracolo della bellezza, ma con una forza centripeta in grado di compensarla egregiamente, si attraversano strati di astuzia, civetteria e coraggio fino a raggiungere Bett, mamma oggetto di idolatria, bellissima e bambina. Eternamente sorella, troppo giovane per sapere come fare.
Janet/Helen si incanta a guardarla, come il resto del mondo, mentre lei rimbalza da un lavoro all’altro, circuita dagli uomini e invidiata dalle donne. Bett è tutta lì, imbracata nei suoi rituali, sigillata dal rossetto, dall’aspersione quotidiana della colonia Blue Grass, è una creatura plasmata per sedurre, non per crescere.
Dovrà farlo sua figlia per lei, sperimentando il distacco in età adolescente.

Helen decide di sorvolare l’Atlantico, impacchetta la sua infanzia newyorkese e se ne va da suo padre che non ha mai conosciuto. È un inglese scostante, ricostruito saldamente con altra moglie ed altra prole. E quella ragazzina è poco più di un ospite insidioso, un insetto bizzarro che ronza troppo forte intorno alla sua inerzia.
Lei vorrebbe solo essere amata, gli chiede tutto, ovvero quasi niente, e si riprogramma per compiacerlo, per conquistare quella nuova tribù a cui sa di non poter appartenere.

Si incolla addosso un accento maldestro, ingrassa e si sforza di masticare il disagio, ma l’altra metà di se stessa è rimasta in America, a scalpitare con sua madre che si balocca allo specchio e scolpisce opere d’arte senza troppa convinzione. Anche lei forse si sente come le statue di sua madre, anche lei forse è fatta d’argilla, modellata da mani sottili e sempre insicure. E soprattutto, Helen sorveglia nel cuore un perenne dissidio, quel suo essere scissa tra due continenti, col malessere di ritenersi americana a Londra e inglese a New York.
Quel senso costante di dis-integrazione, che striscia nel petto e le dondola negli occhi. Helen studia, Helen matura. Helen s’innamora.

In questo romanzo/memoir, che ricorda per efficacia quelli di Janet Frame e Kiese Lymon, si dispiega con straordinaria potenza la sua parabola emotiva ed esistenziale, la tortuosa meraviglia di essere bimba adorante, adolescente rabbiosa, ragazza combattuta, donna e scrittrice complessa.

Janet Hobhouse riesce in modo lenticolare e impeccabile a dirci come funziona l’universo degli affetti. Inquadra, analizza, disseziona scampoli sempre più profondi delle relazioni umane, da quelle sanguigne a quelle acquisite. Fino a regalarci il nucleo: quel bulbo di tremori ed attrazioni che regola il sistema nervoso del nostro rapportarci. È sempre un profilo quello che si può restituire scrivendo, ma è una porzione di vissuto in cui è difficile non riconoscersi. Si rimane folgorati dal suo stile smascherante, radiografico. Le sue appaiono sentenze autoptiche di un medico legale, che decortica ed osserva la morfologia dei nostri tessuti. Quanto è grave il danno, quante regioni di pelle e di organi sono stati coinvolti, quali sono le cause dei nostri infiniti decessi. Leggerla è come mettersi al sole e di ogni conflitto, di ogni passione, intravedere la filigrana.
Il suo amore cambia nome varie volte, ma è Ned quello che sposa, con cui cerca di deglutire la crisi, a cui riserva il tradimento per tornare a respirare: «Ned non aveva speranze. Gli parlai come potei, cercai di scuoterlo, di distrarlo con l’allegria, la vicinanza. Ma dopo alcune settimane niente di ciò che potevo offrirgli sembrava sufficiente a incrinare la sua sicurezza nel proprio fallimento, e alla fine imparammo a conviverci».

La figura nodale della sua intima vicenda resta comunque sua madre. La distanza incoercibile e l’amore smisurato che prova a cucirla. L’irreparabile ferita della sua scomparsa, quel gesto totale e irreversibile che sfregia per sempre l’evoluzione di Helen, ne incide la carne e diventa una fitta. La depressione di Bett, il germe della follia serpeggia come una canzone recitata a bassa voce. Infine la sua assenza, dilagante, senza scampo, detta il tempo degli anni che restano. Il senso di colpa per non aver compreso, per averla congedata come un disturbo («ecco il tuo bacio del cazzo») che la porta a rosicchiare visioni lancinanti di una normalità impossibile: «provavo una gelosia violenta ogni volta che le vedevo: le madri e le figlie felici e litigiose nel nostro quartiere, […] corpi che si piegavano l’uno verso l’altro con aria cospiratrice o si allontanavano a causa di una lite, che facevano progetti, ridevano dei ragazzi, che facevano, mentre io guardavo e immaginavo, ciò che Bett aveva sempre desiderato fare con me, e che era così semplice».

Lo spettro di quel tormento si trasmette per osmosi da madre a figlia e Helen, quasi per nemesi, comincia a traballare. Un cancro alle ovaie è il graffio estremo dell’abbandono materno e l’autrice sa che sta per morire mentre permette a questo libro di nascere. Il firmamento femminile della sua dinastia si ferma a lei, ultima stella prima del buio.

Le furie, amorevoli e beffarde, metà Eumenidi e metà Erinni, sono lì a fissarci. Museo di mitologie viventi, ci ricordano la feroce vendicativa sincerità dell’esserci. Inchiodata a queste pagine fatali a cui si lasciano brandelli di cuore, ma da cui è irrinunciabile fuggire. Come a una trappola di rose, come a un segreto di pietra. 

(Le furie, Janet Hobhouse, Neri Pozza, 2019, pp. 400, euro 18, articolo di Cristiana Saporito)

 

LA CRITICA - VOTO 9/10

In quarantadue anni Janet Hobhouse ci ha lasciato quattro romanzi e un desiderio impossibile di leggerla ancora. Le furie è una biografia familiare e personale. Acuta, sapiente, fulminante come un prodigio.