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Altre Narratività

Che cosa sono i padri

di Giorgio Ghiotti / 17 ottobre

Come se non ci fossero abbastanza parole
e abbastanza memoria
per ricostruire una vita e farlo nel modo giusto.
Richard Ford

 

 

Sirmione del Garda, giugno 2001

Mio padre ferma l’automobile nel parcheggio dell’albergo stirandosi la camicia con le mani. Mia madre è inquieta per le scene da pazzi di mio fratello sui sedili posteriori, ci sfottiamo fino alle mani, e lei arrampicata all’indietro per dividerci con minacce sempre più stanche, la più frequente «volete che facciamo un incidente?», allora un po’ ci calmiamo odiandoci in quella compostezza rigida carica di rabbia. Una sola volta siamo andati fuori strada per le scene da pazzi di mio fratello, di ritorno da Cecina, mio padre ha ripreso a guidare dopo dieci minuti e fino a Roma non è volata una sola parola.
L’albergo porta il nome del vento che soffia sul Garda, El Peler, i tavoli del ristorante si affacciano sul lago e io respiro forte l’odore di alghe che sale dall’acqua, lo stesso identico odore che avrei rievocato anni dopo davanti alla laguna di Orbetello. Ho sette anni, mia madre mi veste a suo piacimento e io godo delle sue attenzioni. Prima di me ha avuto un aborto, una femmina, l’avrebbe chiamata Giulia. Ho sfogliato per anni gli album fotografici della mia famiglia, non c’è alcuna traccia di mia madre incinta, non ci sono foto di quei pochi mesi, non un accenno di pancia su un corpo che è rimasto esageratamente magro fino all’arrivo delle trombosi, fino alla terapia che ha iniziato l’assedio quotidiano, silenzioso, visibile solo in foto a comparare compleanni e Natali, comunioni, cresime, tutta la vita passata in una macchina fotografica nera, un oggetto che già appartiene a un’epoca preistorica – neanche quindici anni! come il lettore dvd che s’inceppava per la polvere e si aggiustava per magia soffiandoci sopra.
Ho immagini affastellate e confuse della vacanza a Sirmione: il ponte di pietra dal quale mi sporgevo per vedere le anatre e i cigni, il borgo medievale preso d’assalto da noi turisti, le pizze cresciute con pomodoro e parmigiano dietro i vetri dei carretti in piazza, il gelato al gusto puffo, immangiabile.

Il piroscafo parte ogni venti minuti. A Gardone riviera andiamo solo io e mio padre perché mio fratello è insofferente e, dice, non ha alcun interesse nel vedere la casa di D’Annunzio, così lui e mia madre vanno al mini golf e quando il giorno dopo ci torno anch’io loro già si muovono tra quei circuiti a zig-zag a monti a valli a spiazzi come una città in miniatura con naturalezza assoluta. Io non mando in buca neanche una palla e nella foto che scatta mia madre, la mazza in mano, ho un’ombra negli occhi.
Ho recriminato spesso a mio padre di non interessarsi al mio mondo, addossandogli colpe superiori ai danni, dimenticando troppo facilmente che è stato lui a portarmi per la prima volta nella casa di uno scrittore. Facciamo il biglietto, la guida raggruppa una quindicina di persone, tutti adulti, fatico dal mio metro e trenta di altezza a vedere oltre le maglie, i calzoncini corti, le gambe abbronzate le borse i marsupi, ed è ora che mio padre si fa strada, apre un varco tra quella piccola folla tenendomi per le spalle perché io sia il primo della fila. Mi sembra di aver avuto quelle mani grandi aperte sulle spalle per tutta l’infanzia, durante le gare di nuoto, oltre la linea di fondo del campo da pallavolo a battere la palla dopo il fischio dell’arbitro, sul divano di casa a leggere libri o in cucina, ho appena imparato a scrivere, per Natale ho chiesto una lavagna e dei gessetti colorati e la sera, dopocena, faccio lezione a mio padre in cucina ripetendo gli insegnamenti del giorno della maestra Edda (in quante parti è diviso un vulcano? individuare le funzioni dei personaggi nella novella di Boccaccio Calandrino e l’elitropia – la mettemmo in scena per la recita di fine anno, io ero Calandrino perché sapevo simulare un ottimo toscano grazie alla zia di Grosseto).
La letteratura rievoca eventi che avevamo dati per persi, e agli eventi accosta i sentimenti, li riconsegna intatti nel tempo. “Che cosa sono le madri” domanda in Ti ho sposato per allegriadella Ginzburg, pure senza punto interrogativo, Giuliana a Pietro; sono sposati da appena una settimana e lei ha conosciuto per la prima volta la madre di lui durante un esilarante e stralunato pranzo di famiglia, Queste madri che se ne stanno là, acquattate in fondo alla nostra vita, nelle radici della nostra vita, nel buio, così importanti, così determinanti per noi! Uno se ne dimentica, mentre vive, o se ne infischia, anzi crede di infischiarsene, però non se ne infischia mai del tutto. Quella tua madre così svaporata, eppure determinante! Non sembra proprio che possa determinare niente, e invece ti ha determinato, a te!
Io vorrei sapere cosa sono i padri, invece, e dove stanno di casa e come ci vedono, se ci vedono, e come ci determinano, per quanto ci accompagnano, vorrei apprenderli per istinto, capirne il verso come un pigiama da tirarne le maniche per metterlo a dritto, vederli bambini col fiocco grande della scuola per provarne tenerezza e lasciar andare la rabbia, l’odio per le loro debolezze, per le loro mancanze. Miserevoli bestie i padri, con la loro dose di errori da scontare come tutti, inappropriati a un ruolo, inclini alla tragedia, per lo meno per uno come me che, mi accorgo ora, aveva puntato tutto su quella camera oscura, le serrande tirate giù, il grande letto matrimoniale dove lasciarmi incantare dalla sua voce di grotta mentre mi narra «Sento dei passi» e finge un rumore sordo battendo il pugno al comodino, «Arriva la vecia», cioè la vecchia in dialetto veneto (perché il mio nonno paterno è di un paese vicino al Po), e la vecia era una Strega temibile frutto della sua fantasia che mi avrebbe rapito, portato via, dalla quale solo le braccia del padre avrebbero potuto salvarmi; allora eccomi con le gambe strette alla pancia, piccolissimo, fare corpo col suo che mi abbraccia scongiurando la vecia, poi senza preavviso prende a farmi il solletico, sempre più forte, da lacrime agli occhi, e solo la voce di mia madre che ci chiama alla cena ci rende la tregua, esausti e felici, fuori dal gioco della vecia per sempre. Quando ho letto Chirùdi Michela Murgia ho pensato che mio padre non ha nulla del padre di Eleonora, a lui non bisogna nascondere lo sporco sui calzoni e non ha confidenza con l’autorità. Se mai mi è sembrato che, scrivendo di Chirù, stesse parlando di lui, lui pure arrivato a me come uno scarto superstite dal mare, bello e perturbante come le cose che non ci si aspetta, difficoltoso come un rompicapo, insondabile a giorni, certi altri risibile e disarmato. Venne a me come vengono i legni alla spiaggia.Ma chi, tra noi, è arrivato a chi? E quanto durerà questa deriva, per quanto ci accompagneremo alle onde?

La vacanza non è ancora conclusa ma mia madre si sente male, di notte, la portano in ospedale e a mezzogiorno ritorna in albergo con la gamba fasciata dalla coscia al piede. Bisogna fare in fretta i bagagli, c’è da ripartire immediatamente. Non ci dicono cos’ha, in macchina mio fratello siede accanto a mio padre, io e mia madre dietro. Sulle cosce ho questa gamba stesa che non oso sfiorare, la osservo come si trattasse di un oggetto estraneo che non appartiene a lei perché so che lì dentro c’è un male anche se ne ignoro la forma.
Mamma mi sorride per tranquillizzarmi, io sono pallido e ho i polsi freddi. Non stacco gli occhi di dosso da quella gamba fasciata stretta, immobile, temo forse che possa esplodere da un momento all’altro come una bomba. Invece arriviamo a Roma e mia madre viene ricoverata per un mese al Policlinico, io vado a dormire dai nonni.
Sedici anni avanti, giugno 2015, entro nella Feltrinelli di Largo Argentina e sfoglio dei libri, ne sfilo uno dallo scaffale, si tratta di Zombiedi J.C. Oates. Quella copertina con arti di bambola nudi, slacciati dal corpo, mi terrorizza e provo un principio di panico. Non sono più uscito da quella macchina, sono ancora intrappolato lì, a sognare Gardaland e il draghetto Prezzemolo identico al fumetto sul biscotto del gelato Cucciolone, mentre mio padre guida veloce incurante dei limiti, lui che guidava solo sulla corsia di destra, e mia madre ogni tanto sorride e io faccio amicizia con questa gamba assediata.

Mi domando spesso chi tra i miei genitori abbia amato di più l’altro, perché alla base di ogni storia d’amore c’è sempre una sproporzione iniziale. È Mario Benedetti a informarmi che è compito dell’amore colmare quella sproporzione, e io continuo a dirgli sarebbe troppo bello, Mario, sarebbe incantevole ma non so se è così, se è l’amore a venire in soccorso o un senso antico di sopravvivenza, la spinta a risalire verso l’alto quando sott’acqua ti manca il respiro. Chi ha amato con più disperazione, chi con più allegria.
Certi giorni li vedo alzarsi presto, prepararsi e aspettare allegri l’ascensore sul pianerottolo per passare la giornata fuori Roma, a Orbetello, a Santo Stefano. Mi sembra di riconoscerli nelle foto dei loro diciott’anni, quando si sono conosciuti, sulla neve con gli occhi stretti, piccoli per le risate, o in costume a Santa Severa – sono più giovani di me ora. Sciascia, alla domanda “Lei è credente?” risponde “Come tutti, imperfettamente sempre”, ed è ancora l’unica risposta che trovo alla domanda Come si amano un padre e una madre, supremazia del come sul quanto, osservandoli ora che invecchiano, sul pianerottolo, prima che entrino nell’ascensore e vadano incontro al loro giorno che inizia.

 

 

“Che cosa sono i padri” è tratto dalla raccolta di racconti Gli occhi vuoti dei santi di Giorgio Ghiotti, uscito per Hacca.

 

Giorgio Ghiotti è nato a Roma nel 1994. Poeta, scrittore, vive tra Roma e Milano, dove studia Italianistica contemporanea e collabora con l’editore Bompiani. Ha esordito nella narrativa con la raccolta di racconti Dio giocava a pallone (nottetempo, 2013) e nella poesia con Estinzione dell’uomo bambino (Perrone, 2015). Ha inoltre pubblicato il romanzo Rondini per formiche (nottetempo, 2016) e il saggio narrativo Via degli Angeli (Bompiani, 2016) con Angela Bubba. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo, per la poesia, La città che ti abita (Empirìa, 2017) e il saggio Costellazioni (Empirìa, 2019). Scrive di libri sulle pagine culturali di il manifesto e ha collaborato con riviste e blog letterari quali Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, minima&moralia.

 

Gli occhi vuoti dei santi: Dodici storie nelle quali l’immaginazione brucia l’esperienza: un vecchio vedovo che, come un alchimista, tenta di riportare in vita la moglie umanizzandone gli abiti per vestire l’assenza. Un ragazzino crede di essere il prescelto da Dio e fa di tutto per redimere i peccati della sua famiglia. Un viaggio in macchina dal lago di Garda verso il sud Italia e un bambino che osserva la gamba assediata della madre domandandosi quale sia la forma del male, capendo anni dopo che l’amore è un incantesimo più risalente della morte. Due donne scoprono d’avere una spia in casa, una testina di terracotta capace di ricatti, malefatte e nevrosi; marito e moglie esorcizzano la vecchiaia aprendo la coppia al giovanissimo Freddy in un itinerario amoroso tra Roma, Berlino e il Messico. Cinque adolescenti, tra iniziazioni sessuali e serate nel bar di quartiere, sognano un futuro all’altezza dei loro desideri lontano dai casermoni di cemento dove sono nati. E poi ci sono i padri, «scarti superstiti dal mare, belli e perturbanti come le cose che non ci si aspetta».

 

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