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Libri

Dell’importanza di continuare a raccontare storie a voce

A proposito di “Il vichingo nero” di Bergsveinn Birgisson

di Marco Miglionico / 26 novembre

Il Vichingo nero di Bergsveinn Birgisson (Iperborea, 2019) è una lettura che lascia il segno e arricchisce. Il taglio evidentemente scientifico di Birgisson filologo e storico mina a volte la capacità di apprezzare la storia in quanto tale di uno dei primi e semi-leggendari colonizzatori d’Islanda, Geirmund Helijarskinn, Geirmund Pelle scura. Infatti, talvolta il lettore potrà gradire poco alcuni excursus, giudicandoli pesanti, ma occorre ricordare che questi fanno parte della struttura e dello stile di un’opera, prima di tutto, storica.

Le vicende sono raccontate con l’acribia dello storico e con una grande precisione nella raccolta delle fonti che, come scritto in chiusura dall’autore, sono state confrontate e studiate anche grazie al supporto di professori e istituzioni scientifico-culturali sia norvegesi che islandesi. Norvegia e Islanda sono, infatti, i due poli principali della storia vichinga e Birgisson confronta costantemente le tradizioni di questi due Paesi per la toponomastica e per i soprannomi dei vari personaggi vichinghi.

Il pretesto narrativo nasce dall’esigenza storica di raccogliere quante più notizie possibili su una tale ancestrale figura, purtroppo dimenticata dalla storia. Geirmund, a differenza dei più noti Harald Bellachioma o di Ragnarr e dei suoi figli (al centro della serie tv Vikings e di saghe più celebri), non ha mai avuto uno spazio definito in una saga personale. Questo libro si propone di essere anche la saga che Geirmund meriterebbe, ma Birgisson indugia troppo sul dato storico, sottraendo alla storia stessa l’anelito mitico che una saga dovrebbe avere.

Di Geirmund l’autore venne a sapere da ragazzino, quando un amico dei suoi genitori gliene raccontò le gesta. Una fonte orale, dunque, è alla base della ricerca, poi approfondita attraverso la lettura comparata di fonti locali, di manoscritti insulari e di tradizioni che vengono da lontano, dagli irlandesi che ne documentarono i contatti in alcuni manoscritti pervenutici, dagli arabi che con questi popoli del Nord intrattennero relazioni commerciali. Tale presentazione della fonte orale, il racconto udito durante l’infanzia, posta come prologo, ricorda da vicino le Storie di Erodoto, in cui l’autore ammette che la sua ἰστορίης άπόδεξις, la sua ‘esposizione’, prende avvio da fonti che, seppure non confrontabili, sono affidabili perché, prima di tutto, da lui udite.

L’esposizione della storia, proprio come in Erodoto e negli storici antichi, procede per capitoli autonomi, in cui ogni aspetto viene approfondito con rigore, puntualizzando la questione etnica dei popoli norreni e, tra questi, quello cui avrebbe potuto appartenere la madre di Geirmund; i loro costumi; la peculiare pesca con gli arpioni, che le fonti arabe descrivevano come un rituale sacrale e straordinario, un lancio di spade nel mare perché i pesci venissero a galla dopo aver invocato gli dèi; la caccia al tricheco, per ottenerne grasso e cordame per le imbarcazioni e, in una fase successiva, quando cioè furono interrotti i contatti con l’Africa, per l’avorio; la peregrinazione di un popolo sempre votato al viaggio, curioso e ingegnoso.

Come già detto, una tale precisione storica, filologica appunto, talvolta sottrae piacevolezza alla lettura. Il motivo sta ancora una volta nelle precisazioni iniziali dell’autore, che vuole restituire del suo antenato non soltanto un profilo storico accurato, ma pure personale: «Le fonti non rivelano nulla sulla personalità di Geirmund Pelle Scura. Se quando sorrideva gli si scoprivano i denti consumati, se era crudele oppure equanime con i suoi sottoposti o se riusciva a vedere il lato comico dell’esistenza […] se diventava logorroico quando beveva, se zoppicava o aveva cicatrici, se ha mai pianto, se reprimeva gli impulsi peggiori o invece li esternava con i suoi cari», o intellettuale: «i pagani avranno ascoltato la storia del Cristo Bianco e della sua morte, che sarà senz’altro parsa loro strana […] Che cos’è il peccato? potrebbe aver chiesto Geirmund».

Birgisson consegna al lettore, infine, la sua personale saga del vichingo nero, ricomponendo finalmente la fama che Geirmund avrebbe meritato con una rapsodica operazione di tessitura delle fonti, tenute insieme da una scrittura sapiente, ma spesso difficile da seguire con attenzione.

 

(Il vichingo nero, Bergsveinn Birgisson, Iperborea, 2019, trad. di Silvia Cosimini, 448 pp., euro 20, articolo di Marco Miglionico)

 

 

LA CRITICA - VOTO 6/10

Un libro difficile da apprezzare, ma che si può concedere a tanti tipi di letture e di lettori, come se la storia fosse raccontata a voce prima ancora che messa per iscritto.