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Cinema

Amazon rende liberi?

Nuova catena di montaggio, stessa alienazione: il lavoro 2.0 secondo Ken Loach

di Emanuele Pon / 23 gennaio

Sorry we missed you è forse la frase che l’Academy dovrebbe rivolgere a Ken Loach, guardando in retrospettiva alla sua carriera ignorata dagli Oscar, o anche solo a questo ultimo film da cui può prendere in prestito il titolo.

Anche questa volta Loach si dimostra un mostro di coerenza: in un tempo in cui a farla da padrone sul grande schermo è un cinema definibile come “puro”, fatto di intrattenimento e di estetica, l’inglese non cede di un millimetro di fronte alle lusinghe della macchina da presa.

Realtà: non serve altro a Sorry we missed you per colpire lo spettatore sotto la cintura, cogliendolo privo di difese e giustificazioni.

Loach mostra in presa diretta la vita di Ricky e della sua famiglia, naturalmente working class, naturalmente in una città poco patinata come Newcastle: la scelta dell’ambientazione lega a doppio filo Sorry we missed you al suo predecessore, Io, Daniel Blake, Palma d’Oro a Cannes nel 2016.

Ricky Turner ha perso la sua occupazione nell’edilizia, e cerca una nuova opportunità: è l’occasione perfetta per diventare una sorta di corriere freelance, sotto l’egida di una grossa azienda. Il nuovo lavoro lo assorbirà completamente, erodendo gli ultimi granelli dell’indipendenza che la famiglia Turner aveva faticato per ottenere.

Dalle prime battute la vita reale sconfina nel film, ed è chiaro che nessuna magia cinematografica salverà la situazione. Oppure, seguendo un’altra chiave di lettura, si potrebbe dire che la realtà è talmente assurda che, per farne cinema, non occorre alcun orpello.

La realtà di Amazon – per citare solo la punta dell’iceberg – è assurda e cinematografica in sé, proprio come lo era la catena di montaggio per il Chaplin di Tempi Moderni: la differenza, ci dice Loach, è che forse, se non abbiamo ancora afferrato il messaggio, non è più il caso di riderci sopra, ed è anzi urgente un corso di aggiornamento.

Questo è Sorry we missed you: un Tempi Moderni 2.0, spogliato dell’ultimo elemento distanziante, ossia la risata.

È assurdo che qualcuno possa lasciarsi tentare dalle sirene della gig economy, che promette flessibilità dando l’illusione di poter essere nuovamente imprenditori di se stessi; tuttavia, è proprio questo che accade a Ricky, che si convince di aver avviato un’attività in proprio, senza accorgersi di essere diventato schiavo di un nuovo padrone: l’odiosa scatoletta nera che ronza e fa bip di continuo, che contiene i dati dei pacchi da consegnare, i percorsi, le statistiche, e che lo richiama all’ordine – bip, bip! – se sta fermo fuori dal suo furgone per più di due minuti.

Loach – insieme al suo storico sceneggiatore, Paul Laverty – racconta la storia dell’illusione di Ricky in modo spietato e studia con approccio veristico gli effetti della nuova modernità su chi in essa ripone le proprie speranze.

Per farlo così bene, occorrevano il coraggio della sottrazione e la forza schietta della semplicità: al primo sono ascrivibili le scelte di azzerare la colonna sonora e di avvalersi di attori sconosciuti, i cui volti mai sembrano “recitare”; per quanto riguarda la seconda, invece, alcuni hanno visto nel film un atteggiamento più semplicistico che semplice.

È vero: il film taglia con l’accetta certi personaggi, presentandoli come figure archetipiche, in primo luogo Sebastian e Liza Jane, i figli di Ricky, ma anche sua moglie Abby.

Seb è un classico adolescente: cappuccio in testa, graffiti, incazzato col mondo in maniera del tutto innocua. Liza Jane è una classica pre-adolescente: scuola, amiche, non più di quindici minuti al computer prima di dormire. Abby è una classica madre-lavoratrice: infermiera a domicilio per anziani e disabili, fa turni massacranti, nutre e lava con il sorriso i suoi pazienti, che le danno in cambio il contatto umano, nonostante tutto.

Ciò che incrina l’equilibrio, allora, è proprio il nuovo lavoro di Ricky: disumano, spersonalizzante, annichilente. Tutta la sua famiglia ne è investita: da qui nasce il graffito ripetuto di Seb, che mostra due facce con lingue di serpente – allegoria dei suoi genitori che litigano –; da qui nasce l’idea di Liza Jane di rubare le chiavi del furgone. «Vogliamo solo che tutto torni come prima», sono le parole rivolte al padre.

La semplicità, dunque, si rivela un valore aggiunto ed imprescindibile: solo così Loach può far capire allo spettatore che il vero nemico è qualcosa di più grande, che dall’esterno agisce in maniera arbitraria sull’interno. La disperazione vera sopraggiunge nel rendersi conto che questo qualcosa è il lavoro: ciò porta Ricky ad avere costantemente l’impressione di stare facendo la cosa giusta, di stare lavorando per la propria famiglia.

Proprio qui sta la forza di Sorry we missed you: Loach è lucidissimo nel leggere e mettere a nudo le contraddizioni intrinseche al nuovo approccio al lavoro, alla sua contaminazione, tipicamente tardo-capitalistica, con la tecnologia e con il miraggio di un’indipendenza illusoria, basata sul controllo, anzi, sull’ossessione.

«Abbiamo del tempo da recuperare» dovrebbe essere la lamentela rivolta a Ricky dalla sua famiglia, ma la realtà del capitalismo è più assurda di così: la frase è rivolta ai corrieri dal capo dell’azienda.

Le contraddizioni riguardano tutti: Sorry we missed you ci mette di fronte allo specchio, quale che sia il nostro ruolo.

I lavoratori avranno chiaro il modo in cui viene sfruttato il loro tempo, e vivranno il dramma di Ricky: continuare a lavorare per garantire un futuro alla propria famiglia, perché non si ha altra scelta. Persino i malviventi che pestano il protagonista verso la fine del film non fanno la figura dei “cattivi”, essendo corollari del meccanismo a ruota dentellata che è il “devo andare a lavorare”, sempre e comunque. Un “cattivo” che un uomo solo non può sconfiggere.

I giovani che si affacciano al mondo del lavoro avranno quasi vergogna del loro futuro: potrebbero finire come Ricky, proprio come dice Seb, perché lo scenario non presenta molte alternative. Fare l’università, certo: ma chi paga? I genitori, lavoratori come Ricky: i figli lo devono permettere?

Poi ci sono tutti gli altri, coloro che guardano dall’esterno la famiglia Turner divorata dal capitalismo tecnologico del nuovo millennio. L’errore da non commettere sarebbe quello di sentirsi assolti. Loach non lo permette: siamo tutti coinvolti, nella misura in cui siamo tutti clienti di Ricky. Chi non ha mai ordinato nulla su Amazon – o su IBS, o su qualsiasi piattaforma di e-commerce – scagli la prima pietra.

Di nuovo, il cul de sac: come reagire? Non comprando più su Amazon, facendolo fallire? Che ne sarà a quel punto dei milioni di lavoratori che perderanno il posto?

Sorry we missed you propone una via d’uscita, nonostante la secchezza in gola che lascia.

Per costruire un futuro alternativo, i Ricky, i Seb, le Liza Jane del mondo devono andare a lavorare con Abby: non sia mai che una delle “sue anziane” abbia una serie di foto che ritrae la mensa dei minatori britannici durante lo sciopero generale del 1984-1985 contro il governo di Margaret Thatcher. Qualcosa su cui meditare, ancora più uniti, per ripartire senza fare la stessa fine.

(Sorry We Missed You, di Ken Loach, 2019, drammatico, 100’)

LA CRITICA - VOTO 9/10

Ken Loach costruisce una meditazione cruda e implacabile sul mondo del lavoro 2.0, quello legato alla tecnologia. Dalle macerie toccanti e tragiche di Sorry we missed you escono vincitrici la spersonalizzazione e l’apatia dello scanner e dello smartphone, strumenti per eccellenza del neo-capitalismo digitale: sono loro a tenere in ostaggio e a distruggere la vita di Ricky Turner. Il guaio è che Ricky Turner potrebbe essere chiunque di noi.