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Libri

Malinconia e mostri,
incanto su tela

“L’incanto del pesce luna”, il nuovo romanzo di Ade Zeno

di Teodora Dominici / 27 gennaio

«Ho sempre confidato nella sacra legge secondo cui l’immaginario è legittimato a divorarsi la verità come meglio crede». Partiamo da qui, dalla nota di Ade Zeno a chiusa del suo romanzo, a cui lui si riferisce semplicemente come a «l’Incanto». È chiamato in causa l’immaginario, dunque quel complesso insieme di sensazioni, sensibilità, tonalità, immagini proprie di ciascuno, e la parola «divorare». L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri, 2020) è infatti un libro in cui sono molto forti sia la componente onirica sia la componente cruda e corporea, legata proprio all’atto del consumare, fare a pezzi, distruggere.

In parte intessuta di elementi autobiografici, è la storia dell’impeccabile professionista Gonzalo, letterato di belle speranze prima e in seguito cerimoniere funebre, e del suo innominabile lavoro. Il lavoro innominabile non è quello di cerimoniere impiegato presso la Sala del Commiato di una grande Società per la Cremazione, ma quello che accetta dopo, pagato dieci volte tanto proprio in virtù della sua eleganza e cultura, della sua discrezione, del suo bell’aspetto, della sua metodica efficienza: procurare nutrimento, ovvero vittime, alla inquietante Signorina Marisòl, capostipite di una ricca e potente famiglia che «somiglia più a una stirpe, o se preferiamo a una tribù di consanguinei radicata nei tessuti di questo Paese da oltre un secolo». Irretito dal sinistro emissario Malaguti, che sembra sapere tutto di lui sin nei particolari più privati, Gonzalo si mette al soldo della famiglia, diventando co-responsabile e testimone delle mattanze compiute ogni settimana dalla Signorina.

Il motivo potrebbe apparire come un’attenuante, anche se l’autore si muove in altra direzione: l’amatissima figlia di Gonzalo, Inés, colpita da un male sconosciuto all’età di otto anni e in coma, grazie alla scelta del padre potrà essere ricoverata nella costosissima clinica privata di “Villa Ruben”, e forse curata. Ma il mistero e le reticenze di Gonzalo attorno al proprio lavoro gli costano la sua relazione con Gloria, madre di sua figlia, che decide di non scendere a compromessi con i silenzi di lui.

Il meccanismo narrativo, sorretto peraltro da una forma espressiva di qualità anche se semplice, si attiva sin dalle prime pagine, e fa pensare a una regia consapevole capace di muoversi agilmente tra i piani temporali costruendo un’alternanza di presente e salti all’indietro, con fermo immagine al momento giusto ed effetti di dilatazione o cristallizzazione del tempo.

Ade Zeno taglia il superfluo – i capitoli non hanno nome, il discorso diretto è alleggerito dei segni tipografici – e dà vita a una galleria di personaggi emblematici con nomi dal sapore vagamente sudamericano (Miguel, Malaguti, Inés, Adolfo Lentini, lo stesso Gonzalo) oppure particolari, come il femminile Maylis, la intrigante receptionist di Villa Ruben. Ci sono poi Camelia, la giovane e temuta “nipotina” di Marisòl, dentini aguzzi e sorriso d’avorio, e i due arcangeli del male Zoran e Bardem, i gorilla della Signorina a metà tra gangster e creature bibliche.

«Mi piaci, Gonzalo. Mi piaci perché sei strano. Qualcuno una volta ha detto che la stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato», dice al protagonista Nardi, il suo mentore e predecessore in qualità di procacciatore di cibo per la mostruosa Signorina.

Oltre ai dettagli fisici e cruenti, l’autore inserisce nel libro almeno tre altri temi: quello dell’amore tra padre e figlia e del rapporto con la malattia, filtrato attraverso la musica, quello dell’essere continuamente sotto scacco, osservati – infatti Gonzalo risulta essere costantemente tenuto d’occhio dalle diverse parti in gioco, in un’ansiogena atmosfera di mancanza di privacy –, e quello della non troppo velata critica a certo tipo di cultura, a certo modo di fare informazione.

Mentre per dare corpo e passato al rapporto padre-figlia vengono immaginate delle fiabe, come “La storia del Re Tristezza e del pesce luna”, la preferita di Inés, per rappresentare questa compagine culturale da contestare viene tratteggiato il personaggio dello scrittore Adolfo Lentini.

Adolfo Lentini è il numero uno tra «quelli che amano sposare le cause giuste al momento giusto. Quelli che si indignano per scandali politici, corruzione, guerre di religione e respirano meglio quando viene loro offerta la possibilità di fimare petizioni contro la fame nel Terzo mondo. Quelli, insomma, che sfoggiano sul comodino la copia abbonati di “Theorema”, il settimanale più venduto del Paese, di cui Lentini è un’autorevole firma».

«Protégé di un ricco imprenditore argentino», Lentini ha conquistato «il consenso della borghesia cosiddetta intellettuale, colta, buonista e benestante». Persino il suo aspetto, rispetto all’aura di tranquilla sicurezza maschile emanata da Gonzalo, risulta antipatico, insufficiente: «Il profilo ossuto, quel naso ricurvo, le labbra sporgenti che provano a nascondere una dentatura irregolare», e una «languida effeminatezza in perfetta armonia con la postura molle e la cadenza mielosa della voce». Ma, poiché questo è il romanzo delle contraddizioni, in Lentini si nasconde l’uomo d’azione.

In L’incanto del pesce luna è netta l’alternanza tra passaggi di una concretezza che impatta con forza e impressiona, e passaggi umbratili, soffusi, evanescenti, in cui i piani si sfiorano e trascolorano l’uno nell’altro come attraverso una nebbiolina.

La stessa “realtà” del romanzo, cioè la sua ambientazione, il suo spazio-tempo, è ambigua, molto connotata ma mai immobilizzata in un nome, un riferimento geografico. I luoghi sono delle entità: il Tempio Crematorio. Villa Ruben. Una grande città. Villa Marisòl. Un posto sicuro dove fuggire.

Gonzalo è un personaggio riuscito perché non si spiega, è un protagonista che agisce e basta. Siamo dentro i suoi flussi di coscienza, talvolta dentro i suoi ricordi, ma non cogliamo mai i meccanismi psicologici: ci limitiamo ad ascoltare le risposte che dà.

È un romanzo, per certi versi allegorico, che gioca molto sulle antinomie, e che non ha l’intento di insegnare qualcosa di morale. Pur giocando sull’evanescenza dei riferimenti e costruendo un non-luogo a sé in cui cose molto strane possono accadere e sono anzi normali (come in una specie di Gotham City, ancora più tenebrosa), la storia scorre molto bene senza sforzo, mantenendo avvinta l’attenzione.

È un libro raccolto su se stesso e con regole che funzionano solo entro i suoi confini: ma regge. E dopo essere stato spiazzante e violento – questo nonostante il leitmotiv della malinconia, e numerosi piccoli cammei di tenerezza – riesce perfino a terminare in un respiro vitale, vitalistico, in un’ombra di romanticismo.

 

(Ade Zeno, L’incanto del pesce luna, Bollati Boringhieri, 2020, pp. 192, euro 16,50, articolo di Teodora Dominici)