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Cinema

La fine del cinema borghese

"Gli anni più belli" è il fallimento dell’idea di cinema di Muccino

di Francesco Vannutelli / 15 febbraio

Gli anni più belli di Gabriele Muccino è il racconto di una fine. Non parliamo, però, della trama, ma dell’idea di cinema del regista. Se c’era ancora qualche possibilità che Muccino tornasse ai livelli degli anni a cavallo del cambio di secolo, questo film spazza via ogni illusione.

È un peccato davvero, e andremo a vedere perché, prima però parliamo di questo progetto troppo ambizioso per reggere alla sua stessa pressione. Giulio, Paolo e Riccardo sono tre amici di sedici anni nella Roma dei primi anni Ottanta. Crescono insieme, tra l’amore per Gemma, i sogni, i mondiali, il muro di Berlino, Tangentopoli, Berlusconi eccetera, e i rapporti cambiano, così come le persone, ma in fondo a tutto l’amicizia rimane.

C’è un modello enorme e prepotente a cui Muccino ha dichiarato di essersi ispirato: C’eravamo tanto amati, il capolavoro di Ettore Scola. Stessa ambizione – raccontare quarant’anni di storia nazionale attraverso le vicende personali dei personaggi –, stesse dinamiche di relazione – tre amici, una ragazza contesa –, quasi le stesse caratterizzazioni – c’è l’idealista che non si realizza mai, l’intellettuale, l’opportunista che appende cappello e accumula ricchezze – e risultati molto diversi.

Ci sarebbe anche il cast, perché, con le debite proporzioni, mettere insieme Claudio Santamaria, Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino e Micaela Ramazzotti potrebbe essere una base sufficiente per fare qualcosa di interessante. Non è così.

Gli anni più belli è un film sbagliato sotto un’infinità di punti di vista, a partire dalla richiesta implicita che viene fatta allo spettatore di accettare come ventenni plausibili i quattro protagonisti truccati – male – da giovani. Il passaggio dagli anni Ottanta a oggi non ha segnato una generazione nel modo in cui ci vuole far credere Muccino, e soprattutto non nel modo in cui ci mostra. La sua narrazione, sviluppata insieme allo sceneggiatore Paolo Costella (già con lui per A casa tutti bene, ma prima a lavoro su titoli come Ricky e Barabba  e Matrimonio al Sud) è del tutto individuale, incapace di raccontare i cambiamenti italiani e internazionali. Anzi, li sfrutta come deboli pretesti per mandare avanti la trama, tra Torri gemelle che crollano su sfondi  televisivi e Movimenti per il Cambiamento agitati nelle piazze per pochi, incomprensibili minuti.

Non è solo con gli esempi a cui Muccino per primo ha dichiarato di rifarsi che Gli anni più belli perde impietosamente, ma anche nel confronto con la filmografia del regista stesso.

Tra fine Novanta e inizio Duemila, Gabriele Muccino aveva infilato tre film che più di molti altri del periodo avevano gettato le basi ipotetiche di un rinnovato cinema borghese. Non appesantito dagli stilemi dei film d’autore né svuotato dalle attenzioni più canoniche al mercato cinematografico. Come te nessuno maiL’ultimo bacioRicordati di me avevano segnato un nuovo modo di raccontare e analizzare la classe medio-alta romana e, per estensione, italiana, con un linguaggio e uno stile riconoscibili e originali.

Quella spinta innovativa si è persa negli anni statunitensi e non è mai tornata. Il già menzionato A casa tutti bene aveva fatto credere, in maniera confusa e meno ragionata, che quel cinema fosse ancora vivo, in fondo a tutto. Gli anni più belli cancella ogni dubbio.

Rispetto ai suoi film precedenti, Muccino sembra trovarsi meno a proprio agio con un arco narrativo così ampio, senza riuscire a concentrarsi sulla dimensione individuale che gli è più congeniale.

Il gruppo di protagonisti è perseguitato dal solito carico di angosce e dubbi e drammi esistenziali del cinema mucciniano. Quel senso eterno di insoddisfazione, che sia sentimentale, lavorativa, individuale o intellettuale. C’è sempre quel rabbioso sentirsi fuori posto, derubati, strappati, ma c’è un’indulgenza nuova, esagerata. C’è un equilibrio incompleto tra dimensione pubblica e privata che porta a evoluzioni della sceneggiature poco lineari, con buchi di anni e incontri casuali come eterno deus ex machina.

Se la scrittura non riesce a centrare il suo obiettivo di doppio racconto, come regista Muccino si concede i soliti piani sequenza per dare spazio ai suoi attori. I risultati, sono, però, a tratti oltre il confine della parodia involontaria – il confronto a tre tra Rossi Stuart, Favino e Ramazzotti fuori scuola sarebbe perfetto se fosse una caricatura affettuosa del cinema mucciniano.

Ed è incredibile come Gli anni più belli riesca a sprecare il talento dei suoi interpreti. Di nuovo insieme quattordici anni dopo il film di Romanzo criminale, i tre protagonisti annaspano tra un copione fragile e una caratterizzazione macchiettistica.

In un periodo in cui Pierfrancesco Favino non sbaglia nulla, anche in film non riusciti come Hammamet, qui è poco più che una somma di stereotipi di arrivisti ed eterni delusi. Kim Rossi Stuart, sempre attento a scegliersi film e ruoli, cade in un idealista ingenuo, tutto polo e discorsi ispirati. Solo Claudio Santamaria si conserva sincero e spontaneo.  Il cast femminile è imbarazzante. Micaela Ramazzotti continua a interpretare il personaggio trito della ragazza fragile, desiderata e contesa, la cantante Emma Marrone sceglie un esordio non esattamente riuscito, e l’immagine generale delle donne che viene fuori le vuole fragili, irrisolte, ricattatrici, sostanzialmente stronze.

Molto meglio i giovani interpreti della prima parte, quella che funziona di più, insieme alla cena quarant’anni dopo dei tre amici.

Gli anni più belli è l’occasione mancata di un nuovo cinema corale italiano, il momento finale di qualsiasi illusione autoriale di Gabriele Muccino.

 

(Gli anni più belli, di Gabriele Muccino, 2020, commedia, 129’)

LA CRITICA - VOTO 4/10

Gli anni più belli vorrebbe essere un‘analisi del fallimento di una generazione, ma è soprattutto l’immagine del fallimento del cinema di Gabriele Muccino.