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Musica

più tronchesi per tutt*

"Fetch the Bolt Cutters": Fiona Apple ci insegna la libertà

di Emanuele Pon / 24 aprile

Da un lato, c’è la detective Stella Gibson che, in una puntata della serie crime inglese The Fall, pronuncia la battuta “Fetch the Bolt Cutters!” (“portate le tronchesi!”) di fronte ad una porta chiusa, dietro la quale una ragazza è stata torturata; dall’altro c’è una ragazza cresciuta, che ha passato gli ultimi otto anni a casa sua, intenta a costruire tredici canzoni con le quali dare un nuovo schiaffo al pop, ma senza prendersi troppo sul serio.
Gli ingredienti di Fetch the Bolt Cutters, nuovo album di Fiona Apple, sono già tutti qui.

Negli ultimi anni non siamo certo stati orfani di grandissime autrici ed interpreti musicali: dagli episodi più mainstream di Adele e Lady Gaga, passando per il pop più raffinato, ma sempre molto radiofonico di Florence o Ellie Goulding, per arrivare al reame dell’indie di ogni razza e fede, con fenomeni come St. Vincent e Regina Spektor. Ebbene, Fetch the Bolt Cutters fa piazza pulita intorno a sé, come un fulmine a ciel sereno.

Così, in un panorama musicale dove ancora echeggiano nelle nostre orecchie le note struggenti – ed estremamente classiche – di pezzi come “Someone like you” di Adele o di “Back to black” di Amy Winehouse, Fiona Apple entra a gamba tesa con un disco che si auto-denuncia come bizzarro, strano fin dall’inizio. Fetch the Bolt Cutters si nutre delle sue imperfezioni, che non solo non vengono nascoste, ma anzi sono esibite, ostentate con orgoglio divertito. Così suonano queste “tronchesi che dobbiamo portare”: divertenti e divertite, pure nella consapevolezza di una rabbia, un’acredine di fondo più che giustificata, che però unisce più che disfare.

Fiona Apple ci trascina nel suo mondo in modo inesorabile: un mondo fatto di ricordi ineludibili con cui avere a che fare, ma con cui la cantautrice statunitense ha imparato a convivere, rielaborandoli e tramutandoli da esperienza personale a messaggio collettivo.
Il mondo di Fiona Apple somiglia alla copertina di Fetch the Bolt Cutters: minimale, quasi uno scarabocchio da bambini, decisamente homemade. Il dono di un disco come questo sta nel farci percepire la semplicità, ma soprattutto la complessità che dietro ad essa si nasconde.

Da un lato, abbiamo un suono che più semplice di così non potrebbe essere: pianoforte e voce tessono le linee melodiche, e i bassi le tengono insieme amalgamando il tutto. Il pezzo d’apertura, “I Want You To Love Me“, è un ottimo esempio: arpeggio al piano sul quale si innesta la voce, già caldissima, di Fiona, che canta di argomenti non lievi – una separazione, o quantomeno un rapporto ambiguo, fatto anche di giochi di volontà e potere – con leggerezza e carisma da crooner; su tutto questo inizia a stagliarsi la maestosità degli arrangiamenti. Ciò che colpisce, in Fetch the Bolt Cutters, è proprio questo, l’altra faccia della medaglia: ci vuole del talento vero per mascherare da semplicità, per presentare con immediatezza una tale complessità.

L’estro performativo di Apple fuoriesce spesso, ed è importante notare come l’atteggiamento non sia mai di arroganza, ma solo di libertà. Dopo tutto è questo che significa Fetch the Bolt Cutters – la battuta, ma anche tutto il disco: se vogliamo delle tronchesi è perché sentiamo il bisogno di rompere una qualche serratura per uscire. Fiona si è liberata, come un vulcano che erutta pura e semplice genialità.
Il disco si muove interamente su questo doppio binario, quello della semplice genialità.

La voce di Fiona arriva in modo semplice, non appare mai artefatta o effettata: tutt’al più è raddoppiata, sovrapposta con incisioni successive che creano un effetto impagabile da coro gospel, come in “For Her” in cui, tra la ripresa di “Good Morning” (da “Singing in the Rain“) e un sottofondo spiritual, si canta con leggerezza un verso come «you raped me in the same bed your daughter was born in». Altrove, la voce di Apple graffia e punge con una consapevolezza interpretativa senza pari: nel ritornello di “Rack of his” o di “Ladies“, il timbro si fa vibrante come quello delle più grandi signore di jazz e soul, talmente arrabbiato e spontaneo da far venire in mente le urla di una certa Janis Joplin.

Altro elemento fondamentale da prendere in considerazione, ineludibile per godere appieno di Fetch the Bolt Cutters, è la sezione ritmica. Ciò che musicalmente conta di più, ciò che fa da contrappunto alla voce ispiratissima di Apple, sono le percussioni: Fetch the Bolt Cutters è scandito da un tessuto ritmico che oscilla tra il tribale ed il casalingo, fatto di suoni autenticamente – ma, è il caso di ripeterlo, non arrogantemente – “strani”; le melodie di brani come “Newspaper” e “For Her”, nonché le conclusive “Drumset” e “On I Go” si adagiano su tappeti di battimani e utensili domestici percossi come strumenti.

Tutto, poi, è circondato da quelle imperfezioni che rendono Fetch the Bolt Cutters così vero e immediato: Fiona che sbaglia un testo, dice fuck it e non si corregge, versi di cani e gatti sullo sfondo, risate, gorgheggi, mugolii e così via.
La vita ed il mondo quotidiano di Fiona Apple irrompono nelle classifiche di Spotify e nelle nostre orecchie, con una condivisione totale, da parte della cantautrice, della propria intimità: fisicamente – se si tiene conto che la gran parte del disco è nata e cresciuta in casa sua, e casa sua, letteralmente, si sente in più di un brano – e psicologicamente, se si presta invece attenzione ai testi.

Le liriche di Fetch the Bolt Cutters sono dirette, immediate, senza fronzoli in modo quasi diaristico e ci offrono una finestra sulla vita privata di Apple; tuttavia, ciò che innalza ulteriormente il livello di questi testi, – oltre alla loro pesantezza e schiettezza, che cozzano meravigliosamente con questa musica “leggera” – è il fatto che l’esperienza personale della loro autrice sia stata trasformata in messaggio sociale.
E il messaggio sociale è quanto di più semplice e necessario ci possa essere di questi tempi: fanculo il patriarcato, donne di tutti i paesi unitevi.

Così, ci sono storie personali che si fanno collettive, o comunque paradigmatiche di un destino comune, come le incomprensioni di “Rack of his“, le oppressioni di “Under the Table“, la depressione di “Heavy Balloon” e la rassegnazione di “Cosmonauts“; ma ci sono anche episodi più smaccatamente sociali, che pestano con un ironico martello sui tasti dolenti dello stupro, del tradimento, della possessività: “Newspaper”, “Ladies” e “For Her” sono altrettanti manifesti per un nuovo, realistico femminismo consapevole di sé.
Fino all’affermazione della propria inalienabile e totale, sfrenata libertà, cantata, anzi, cantilenata come un mantra, come – letteralmente – un canto “Vipassana“.
«On I go, not toward or away
Up until now it was day, next day
Up until now in a rush to prove
But now I only move to move».

LA CRITICA - VOTO 9,5/10

Con Fetch the Bolt Cutters, Fiona Apple esplora ulteriormente le sue possibilità espressive e la sua genialità: le sue canzoni suonano come la risata leggera e consapevole che seppellirà il vecchiume di certa musica, la rigidità di certe convinzioni, la muffa del patriarcato.