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Libri

La sindrome della ninfetta

La Lolita di Buzzati

di Elisa Bisson / 26 giugno

Massacrato dalla critica dell’epoca, censurato e frainteso, il romanzo di Vladimir Nabokov viene pubblicato in Italia solo nel 1959Lolita (Adelphi, 1993) si presenta da subito come un’opera concepita per disturbare il lettore per tematica, intreccio e narrativa.

La pedofilia, attorno alla quale orbita il romanzo, viene affrontata con una tecnica stilistica votata all’estetica, architettata per essere allusiva e mai brutale.

La vicenda è quella del maturo professore Humbert Humbert che sin dall’incipit del romanzo argomenta in modo chiaro le motivazioni che nella vita l’hanno portato ad amare giovanissime “ninfette”, per sua definizione ragazzine che, pur molto piccole, emanano già sensualitàHumbert in prima persona parla dell’incontro con la femme fatale che ha incantato negli anni letteratura e cinema (IMDb, 1962) Dolores Haze, una dodicenne di una benestante famiglia statunitense. Dolores o Lo o Lola e soprattutto Lolita, si dimostra da subito irrequieta, ribelle e precoce, «una miscela di tenera infantilità sognante e inquietante volgarità», tutte qualità che irretiscono il professore: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.»

Seguono così nel corso della narrazione le frenesie del protagonista, la sua smania febbrile di contemplarla e desiderarla. Il dissenso del lettore viene assecondato dal narratore-protagonista, che rivolgendosi costantemente all’ipotetico pubblico di una giuria, confessa la propria colpa e l’incapacità di liberarsi dalla propria ossessione che lo porterà ad una climax di atti disperati fino al termine del romanzo. Così si rimane spiazzati davanti ad un testo autodiegetico che è apologia, confessione, memoriale e testimonianza del più feroce predatore e del più debole degli amanti.

Con la morte della madre di Dolores, vittima di un incidente stradale, avviene un significativo passaggio all’interno del romanzo: Humbert andrà a prendere Lola, partita per una colonia estiva pochi giorni prima, e con lei inizierà un assurdo vagabondaggio tra un motel e l’altro in giro per gli Stati Uniti proponendo a Lolita di accettarlo come suo patrigno. La penna di Nabokov raggiunge qui l’apice della sensualità nella descrizione della scena di seduzione che si svolge nell’hotel dove i due passano la prima notte insieme: inaspettatamente è proprio la giovane a sedurre l’uomo con infantile disinvoltura, come inconsapevole del gioco perverso che ha avviato. Persino nei luoghi dove la fisicità e l’incontro sessuale sono predominanti, l’autore russo non perde il tocco e affronta il passaggio con eleganza, trasudando sensualità e mai sessualità. In Lolita nulla è taciuto ma tutto è equilibrato.

Buzzati, Nabokov e la sindrome della infetta

La relazione viene riportata da Nabokov con sinistra empatia e ritmo incalzante: Lolita e Humbert in un estenuante gioco di forza rivestono e ribaltano i ruoli di padre e figlia, di amante e amata, di schiavo e padrona. Litigano spesso e l’uomo soccombe ai capricci della giovanissima ninfetta che, suo malgrado, lo manipola, lo tortura e lo umilia in modalità differenti: poche volte emerge il raccapriccio della bambina di fronte alle perversioni del suo tutore, alle quali s’abbandona il più delle volte lucidamente, convinta di avere l’uomo in suo potere. Così nel mistero del loro legame lascivo e incontenibile viene costantemente a perdersi il confine tra carceriere e carcerato.

Nel mentre, Humbert s’innamora. È un amore malato, d’una profondità abissale e lacerante che finisce per persuadere il lettore che sia Dolores in certi casi l’antagonista che si accanisce e si prende gioco del proprio amante. Un autore che riesca in un’impresa del genere, a ribaltare i fatti, a sottrarre il baricentro morale al proprio lettore, risulta senza dubbio un grande scrittore.

Il filo portante del romanzo di Nabokov sembra essere stato assimilato e intessuto nell’intreccio di Un Amore (Mondadori, 2016) di Dino Buzzati che pubblica il suo romanzo nel 1963, a poca distanza dalla prima edizione italiana di Lolita, come a porsi in diretta continuità.

Buzzati regala un interessante spaccato della Milano industriale degli anni sessanta che fa da sfondo alla vicenda di Antonio, ricco architetto di mezza età alle prese con la ninfetta Laide. La femme fatale in questione è una giovanissima prostituta, ufficialmente ballerina del corpo di ballo della Scala, conosciuta nella casa di incontri della signora Ermelina. Dal carattere sfrontato e deciso, la ventenne prende pian piano coscienza del totale asservimento di Antonio che lo rende debole e acquiescenteIn questo modo Laide ribalta la natura dei rapporti con il suo cliente, la giovane “maschietta” detta modi e tempi della relazione stabilendo un legame di totale sottomissione e devotissimo servitium amoris: su questo passaggio sembra intravedersi l’eco del maestro russo e dei suoi personaggi.

Gli universi di Laide ed Antonio sembrano scontrarsi: la borghese Milano imprenditoriale entra in collisione con il sobborgo costretto ad umiliarsi per sopravvivere.

Ma nello scontro ecco il trionfo del contendente più svantaggiato, la giovane prostituta, che finisce per ritagliarsi un ruolo di predominanza nella vita del suo amante. Buzzati vorrebbe in tal modo rimarcare seraficamente la dipendenza morbosa della Milano abbiente da quella Milano popolare e affamata di cui si nutre.

Così Antonio vive la sua passione tossica per Laide: lei, dal canto suo, non lascia mai intendere di ricambiare quel sentimento morboso, se non per aggrapparvisi nei più disperati momenti di bisogno, diventa la sua mantenuta pur continuando a condurre la vita di sempre.  Appare chiara la panoramica dei tradimenti, delle menzogne raccontate ad Antonio e dell’indifferenza nei suoi confronti, eppure sono i pensieri convulsi del protagonista, il protrarsi dell’attesa e la sua cieca speranza in quell’amore che spingono il lettore ad aspettare, insieme ad Antonio, un estremo atto di pentimento da parte di Laide.

«Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata… E benché molti ci avessero camminato sopra, era ancora fresco, gentile e profumato… Non era una infatuazione carnale, era una stregoneria più profonda…»

In questo passaggio avviene la definitiva simbiosi tra la cruda vicenda di Buzzati e l’elegante narrazione di Nabokov: a partire dai due protagonisti maschili Humbert e Antonio, che raccontano in prima persona l’ossessione per le donne estremamente più giovani di cui finiscono per diventare schiavi. La differenza è percepibile nel modo in cui entrambi vivono le proprie esperienze: Antonio non tenta di nascondere la sua natura, non trova svilente la sua propensione verso partner sessuali più giovani e anzi, si racconta sin dall’incipit con ostentazione e esuberanza. Humbert al contrario appare consapevole della propria perversione e, combattuto tra morale e desiderio, si rivolge ai membri della giuria parlando di sé come di un paziente incapace di vincere la propria malattia e che di questa ne ha fatto un simulacro. Entrambi tuttavia non vogliono guarire affatto, cercano scusanti per rimanere incatenati alle proprie prede, sfiniti dalle ossessioni a cui hanno votato il cuore, Lo e Laide.

Quest’ultime a loro volta sono l’una lo specchio dell’altra: giovanissime, seducenti, elusive e consapevoli della loro influenza sui due amanti. La disarmante lucidità di Lolita oscilla insieme alla sua innocenza strappata: in lei combattono la donna cresciuta precocemente e la bambina che desidera un’infanzia, pertanto tormenta e inganna il proprio aguzzino inerte e certo di meritare una simile punizione.

Laide dalla vitalità intensa, misteriosa e bugiarda, che ricorda a volte quello di una bambina, similmente nasconde l’amarezza della propria condizione di prostituta e della gioventù sprecata: così si abbatte su Antonio come un ciclone sconvolgendogli la vita e guadagnandosi una rivincita, un riscatto all’infinita pietà che prova per sé stessa. Tanto Laide quanto Lo troveranno infine epilogo comune in una gravidanza, che finisce per conferire loro un acquietarsi dei sensi, un torpore che lenisce le ferite e che genera rinascita, come se le loro precedenti esistenze rimanessero nell’oblio della memoria e i loro amanti un malinconico capitolo trascorso.

In questo modo i profili delle due giovani combaciano nella tragedia fino a diventare un topos, senza perdere quella pallida umanità che non smette di commuovere.

Si confondono i confini tra bene e male, morale e immorale, vittima e carnefice: in questo la grandezza di Nabokov che riflette in Buzzati. Il loro merito è di aver avuto l’ardire di affrontare una tematica scottante adattandola al proprio stile ma lasciandone invariata la poetica ossimorica dell’orrore e del magnetico, della repulsione e del fascino. Così entrambi gli autori provocano il lettore e lo catapultano in un viaggio nei dilemmi interiori reali e immaginari, finendo per elevarlo così, esplicitamente o intimamente, al ruolo di giurato.