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Cinema

Le conseguenze di un tradimento

Su “Lacci” di Daniele Luchetti

di Elisa Scaringi / 16 ottobre

«È difficile soffrire in modo simpatico». Ognuno reagisce come può al proprio malessere. Prendiamo, per esempio, i due protagonisti di Lacci, ultimo film di Daniele Luchetti. Lei viene tradita per un’altra, e la rabbia confluisce sul marito che non vuole rimanere con i figli. Lui tradisce quasi per noia, trovandosi poi a rimpiangere quel legame che ha tentato di strappare via fuggendo. Vanda, la giovane Alba Rohrwacher, caccia di casa il marito, ma ci ripensa subito: lo cerca, lo insegue, lo minaccia. Poi si rassegna alla sua inettitudine, e così lo riconquista. Aldo, il tenebroso Luigi Lo Cascio, confessa quasi per gioco, e sembra non pentirsi: subisce il dolore che ha inflitto con l’assenza. Ma conosce bene i suoi sentimenti; sa capire qual è la differenza tra una passione travolgente e la quotidianità spesso banale: la sicurezza di un legame che può durare anche trent’anni.

Nel gioco di flashback che si intrecciano a svelare i fatti, Daniele Luchetti gioca sui primissimi piani per raccontare i nodi di una famiglia in via di distruzione: due genitori incauti e due figli disorientati, i cui lacci si sciolgono per riannodarsi quasi facilmente, senza troppo badare a raccontarsi vicendevolmente. Aldo e Vanda si scrivono per dirsi le parole più dure, ma è solo di fronte alle macerie della propria casa che vengono fuori in tutta la loro onestà. Vanda diventa l’ironica Laura Morante, che riconosce di aver vissuto una vita non sua, non desiderata e non voluta. Aldo si trasforma nell’istrionico Silvio Orlando, che rimpiange di non essersi mai arrabbiato, e intanto pensa a quelle polaroid scomparse, la prova del peccato a lungo nascosto. Mentre Anna e Sandro sono ormai cresciuti: lei, la grande, che tenta con tutta se stessa di essere diversa (dalla madre e dal padre); lui, il piccolo, che cerca di guardare a quel poco di bello che lega ancora la loro famiglia. Anna è disillusa, piena di rabbia per un futuro che non ha mai visto arrivare, quando guardava il padre passeggiare con Lidia, e li invidiava per la loro giovane spensieratezza. Sandro è, invece, l’opposto: non si è inflitto la solitudine per via di un passato triste; ha deciso di dare spazio alla confusione che li ha contraddistinti fin da piccoli, mettendo al mondo dei figli che poi avrebbe visto poco, proprio come il padre.

Il film Lacci (e l’omonimo libro di Domenico Starnone da cui il film di Daniele Luchetti è tratto) non è più la storia di un tradimento, svelato e poi perdonato, ma la tragicommedia di una famiglia in bilico tra le aspirazioni personali e le responsabilità familiari, divisa fra i dolori subiti e quelli mai comunicati, che prende a collante della propria unione il disastro e l’ignominia. Come confessa Anna al fratello: «Gli unici lacci che per i nostri genitori hanno contato sono quelli con cui si sono torturati reciprocamente per tutta la vita». In fondo, il riassunto di tutta la vicenda potrebbe stare nel gatto di casa: così silenzioso e guardingo, diffidente come i suoi padroni, che vorrebbero trasformargli il nome in «la bestia», e che invece continua a significare «sventura» e «rovina».

(Lacci, di Daniele Luchetti, 2020, drammatico, 100’)

 

LA CRITICA - VOTO 7/10

Daniele Luchetti porta sul grande schermo un nuovo romanzo. Dopo Momenti di trascurabile felicità, tratto dal libro di Francesco Piccolo (che ha collaborato anche questa volta alla sceneggiatura), è ora la volta di Domenico Starnone e il suo Lacci, una storia di famiglia che viene raccontata attraverso gli sguardi: la macchina da presa si avvicina con forza ai personaggi e ne traccia i disastri con il tocco leggero di chi sa scrutare gli occhi per leggervi attraverso.