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Libri

Cesare Pavese, i luoghi di una vita in “Il mestiere di vivere”

Se queste rocce fossero in Piemonte

di Ulderico Iorillo / 26 novembre

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (La luna e i falò, Einaudi, 1950).

Questo passo, tra i più belli e chiari (e anche noti) del Novecento letterario sull’appartenenza, sulle radici, è rimasto nei miei pensieri sin dagli anni del liceo, quando vivevo ancora nella mia piccola cittadina di provincia. Allora, quando “il gusto di andarsene via” era una ragione valida e sufficiente, credevo che il legame con i miei paesi si sarebbe affievolito nel tempo. Questo non è mai accaduto, anzi è per me diventato sempre più forte. Neppure Pavese ha lasciato andare quella parte di sé, quella che “quando non ci sei resta ad aspettarti”, e gran parte del suo lavoro ha ruotato intorno all’infanzia e al luogo, a come il poeta non debba cercare le proprie immagini nella vita adulta, bensì nel momento in cui non era ancora poeta e si meravigliava di ciò che vedeva per la prima volta. Molto ha scritto Pavese sui suoi “luoghi unici” o “sacri”, su Santo Stefano Belbo e le Langhe, contraltare della città, di Torino. Pavese torinese, incantato dalla vita della città, spaventato dalla solitudine, non ha potuto fare a meno di vivere questo dualismo, quest’antinomia, tra infanzia in campagna ed età adulta cittadina. Da giovane l’ha temuta e sognata, la città, e poi, come molti, non l’abbandonata più, tanto da diventarne un simbolo, e nonostante questo, per tutta la vita ha ricercato le proprie radici lontano da lì, proprio come l’Anguilla protagonista del suo ultimo romanzo.

Alla ricerca di questo leitmotiv ho scandagliato Il mestiere di vivere, la vera miniera dove il concetto viene estratto e lavorato, metodicamente per oltre quindici anni. Questo “Secretum Professionale” o “giornale” – come chiamava Pavese Il mestiere di vivere – è un diario e un quaderno di riflessioni poetico-letterarie, un journal de l’oeuvre e un journal intime. Racchiude gli appunti di una vita, da quando l’autore aveva 27 anni ed era al confino a Brancaleone, in Calabria, fino a pochi giorni prima della sua morte.

Si costituisce come un corpus unico del pensiero pavesiano, «un diario costruito a blocchi, i quali però si elevano come un tutt’uno”, come afferma Guglielminetti, curatore insieme a Laura Nay del libro. Un testo condotto organicamente dove «il tempo della vita ed il tempo della scrittura progressivamente coincidono, per non interrompersi se non naturalmente, con la morte di chi gestisce entrambi». Il mestiere di vivere continua a rappresentare una fonte infinta di analisi, una finestra aperta sulla vita dell’autore. Sia che si tratti della prospettiva psicologica, quella che indaga il Pavese misogino tentato dal “vizio assurdo” del suicidio, innamorato, disperato e solo, sia di quella filologica, del Pavese che allontana la realtà oggettiva per tuffarsi nella ricerca della verità sulla poesia, sulla letteratura e il senso dell’arte, questo libro è una continua scoperta. Ho letto il Il mestiere di vivere nell’edizione Einaudi realizzata per il settantesimo anniversario dalla nascita dello scrittore. Tutte le opere di Pavese sono state ristampate in questa occasione da Einaudi con una nuova veste grafica e nuove introduzioni, quella di Il mestiere di vivere è a firma di Domenico Starnone.

Il diario comincia nell’ottobre del ’35, e Pavese appunta dal confino le prime annotazioni, mentre sta per concludere la stesura di alcune poesie che confluiranno a breve in Lavorare stanca.

«Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro un significato».

A distanza di qualche mese, a pubblicazione avvenuta, torna a pensare a quello che ha scritto e alle sue terre.

«Il caso mi ha fatto cominciare e finire Lavorare Stanca con poesie su Torino – più precisamente, su Torino come luogo da cui si torna, e su Torino luogo dove si tornerà. Si direbbe il libro l’allargamento e la conquista di S. Stefano Belbo su Torino. Tra le molte spiegazioni del “poema” questa è una. Il paese diventa città, la natura diventa la vita umana, il ragazzo diventa uomo».

Il 15 marzo dello stesso anno finisce il suo esilio e chiude questo periodo della vita, senza aver ambientato nulla nelle terre calabre, annotando semplicemente: «Finito confino». È qualche anno più tardi, già nei primi mesi del ’42 che Pavese riorganizza questi primi pensieri nel tentativo di elaborare una più compiuta teoria del ricordo d’infanzia.

«Davanti al mare della Pineta, basso e notturno, passando in treno, hai visto i focherelli lontani e pensato che per quanto questa scena, questa realtà, ti riempia di velleità “di dire”, t’inquieti come un ricordo d’infanzia, essa non è però per te né un ricordo né una costante fantastica, e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non contiene, come una vigna o una tua collina, gli stampi della tua conoscenza del mondo».

Pavese ritiene che non esistano che «paesaggi che abbiamo già ammirato» e che è per lui difficile aggiungere nuove ambientazioni oltre quelle legate al tempo in cui «si formarono i nostri stampi immaginativi».

«La noia indicibile che ti danno nei diari le pagine di viaggio. Gli ambienti nuovi, esotici, che hanno sorpreso l’autore. Nasce senza dubbio dalla mancanza di radici che queste impressioni avevano, dal loro esser sorte come dal nulla, dal mondo esterno, e non essere cariche di un passato. All’autore piacquero come stupore, ma lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità».

È nel ’44 che inizia a considerare alcuni aspetti di sé stesso in relazione a questo concetto, come se cominciasse finalmente a vedersi per quello che è: un cittadino che vive nel ricordo mitizzato del suo paese d’elezione.

«Il luogo della tua persona è certo il viale torinese signorile e modesto, primaverile e estivo, calmo, discreto e vasto, dove s’è fatta la tua poesia. La materia veniva da molte parti, ma qui trovava forma. Questo viale, e il caffeuccio sul viale, fu la tua camera, la finestra sulle cose. Quando ti torna l’istinto di poetare cerchi di questi luoghi».

Ma nonostante questa consapevolezza, quel posto gli provoca sempre lo stesso turbamento.

«Perché a ogni sussulto mitico ti ritornano in mente i tronchi e il fiume e la collina con dietro la luna e la strada e l’odore di prato e di campo, del tuo paese?»

L’incanto che gli danno le colline, il paese, le vigne, in una parola le Langhe, non finisce mai, è una fonte esauribile dove tutto nasce e dove tutto esiste per lui soltanto, quasi inspiegabilmente, e nonostante senta una razionale spinta verso una maturità personale (più che formale), non può fare a meno di tornare bambino a ogni frammento del suo Piemonte.

«Oggi vedevi la grossa collina a conche, il ciuffo d’alberi, il bruno e il celeste, le case e dicevi: è come è. Come deve essere. Ti basta questo. È un terreno perenne. Si può cercar altro? Passi su queste cose e le avvolgi e le vivi, come l’aria, come una bava di nuvole. Nessuno sa che è tutto qui».

È tra il ’47 e il ’50, quindi fino a qualche mese prima di morire, che approda a quel concetto più “maturo” e forse più distaccato. Arriva a ritenere il ricordo parte del processo di elaborazione del passato che l’uomo compie nell’età matura, e che non riguarda solo l’infanzia, ma si allarga ad altri momenti “infantili” mitizzabili, e perciò materia d’arte.

«Comincia ad apparirti come infanzia (adolescenza) anche l’età dei trent’anni. Puoi fare racconto – cioè – anche della cultura. La virilità si può intuire («favoleggiare») quando appaia come un’infanzia. Aver digerito un’esperienza, avere il distacco vuol dire vederla come un’ingenuità infantile. La grande poesia è ironica».

A leggere Il Mestiere di vivere, e a farlo magari come ho fatto io alla ricerca di una prospettiva soltanto, si prova la strana sensazione di aver cominciato un discorso con qualcuno e di essere stati bruscamente interrotti. Resto lì a chiedermi cosa avrebbe pensato più avanti, come avrebbe chiosato, se l’avrebbe mai fatto, e se sarei stato d’accordo con lui. Vorrei ancora leggere della sua infanzia, di quei posti, di come tutto sia lì ad aspettarci. Ma pochi giorni prima del suicidio quel suo “giornale” delle idee non riesce a tenerlo abbastanza lontano dalla realtà, dalle sue manie, così, con poche nette parole, Pavese interrompe i suoi pensieri, il suo dialogo con sé stesso, con il mondo, con me.

«Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».