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Fake Hotel Europa

Su “Grand Hotel Europa” di I.L. Pfeijffer

di Giuseppe Cocomazzi / 30 novembre

All’origine di Grand Hotel Europa (Nutrimenti, 2020) c’è l’intenzione di pararsi le spalle e di farsi sussidiare. Il protagonista, che porta l’«improbabile» nome di I.L. Pfeijffer, è uno scrittore olandese che come altri illustri compatrioti prima di lui ha abbandonato i Paesi Bassi per sfuggire a un senso opprimente di informalità. A differenza loro è stato il primo a stabilirsi in Italia e a trovare in questo paese euforicamente in declino, dove la gerarchia sociale ha conservato intatta l’elegante trama dell’ingiustizia, il palcoscenico ideale per allestire un nuova fase all’insegna dell’engagement.

Qui ha trovato anche l’amore della sua vita, la storica dell’arte Clio, che in una geremiade contro le nefandezze dell’accademia italiana ci ricorda che «la metà del patrimonio artistico mondiale si trova in questo paese». L’Italia è schiava del passato e «fa parte nel Dna degli italiani il non aspettarsi aiuto dallo Stato e considerare il potere centrale più un nemico che un amico». Con un non sequitur illuminante, quando un team di cineasti importuna lo scrittore con la vaga prospettiva di girare un documentario sulla sua vaga vita, questa musa eccellente gli suggerisce che «il progetto potrebbe essere quello di farli filmare la ricerca per il tuo nuovo libro sul turismo. […] Il vantaggio per te sarebbe che con le loro sovvenzioni rendono possibile la tua ricerca».

L’idea non è peregrina, tanto più che lo scrittore, sensibile al dilemma di essere un migrante di lusso nell’epoca degli sbarchi, non deve pensare troppo agli argomenti per convincere il team a sposare il suo progetto: «I turisti sono sempre gli altri. […] Il turismo forma un contrasto scomodo con l’altra forma di migrazione che è la conseguenza della globalizzazione e che consideriamo senza riserve problematica […]  Il turismo tocca temi da cui sono sempre stato affascinato e di cui in un certo senso parlano tutti i miei libri, e qui alludo soprattutto alla linea di separazione nebulosa e sempre più imprecisa fra vero e falso, dato di fatto e finzione, realtà e fantasia, verità e invenzioni». Sembra una vera richiesta di sovvenzione, no? Ed è esattamente così, come apprendiamo da una lettera spedita al fondo olandese per la letteratura e raccolta in Brieven uit Genua (Lettere genovesi).

Gran parte delle seicento pagine spese a ridicolizzare i turisti si basa sul dilemma del prigioniero: a parità di informazioni, a chi conviene rinunciare per primo al turismo di massa? Troppo preoccupato a mantenersi in equilibrio sulla diga che separa i dati di fatto (imprecisi) e le invenzioni (nebulose), il romanziere dimentica che una delle virtualità di una narrazione sta anche nell’infrangere il frame dominante e proporre visioni sperimentali della realtà. Ed ecco che invece il turismo di massa è il figlio della «religione mondiale del neoliberalismo», il cui unico dio è l’io.

È soprattutto per riflettere sull’accusa di egoismo rivoltagli da Clio che lo scrittore si ritira in un albergo delabré in un punto del suolo europeo così indefinito che non può che essere in Mitteleuropa, giusto in tempo per seguire gli ammodernamenti disposti dal nuovo capitale cinese in direzione di uno stile neo-europeo. Protetto da questo rudimentale escamotage allegorico, che farebbe intenerire Steve Bannon, lo scrittore discetta affabilmente con il signor Patelski, vetusta incarnazione dello spirito europeo, che come tutti gli altri personaggi è un bricolage tra gli incravattati editoriali e le abissali falle nella corteccia prefrontale dell’autore Pfeijffer.

Quando non sono impegnati a complimentarsi a vicenda, i due intellettuali stiracchiano con audacia il destino veneziano a un’Europa ontologicamente sommersa dal passato e incapace di resistere agli assalti barbarici del turismo, in particolare quello asiatico. I due però non si crogiolano nella nostalgia e sanno bene che siffatte teorie sono molto diffuse nell’estrema destra («Le fa onore questa preoccupazione circa l’origine delle vendite dei suoi scritti»). Dopo aver tracciato un repellente parallelo tra l’invasione dei turisti e il respingimento dei migranti, il pragmatico Patelski sostanzia da un punto di vista filosofico-realista la policy dell’accogliamoli tutti, dimostrando di sapere nulla sull’argomento e ancora meno su un approccio pragmatico alla crisi migratoria. Nel generale tono denigratorio riservato ai ‘cinesi’, il dotto Patelski dà adito a pure speculazioni, come quando afferma che le spedizioni marittime guidate dall’ammiraglio Zheng He a inizio Quattrocento puntassero anche a Venezia.

Ma si sa, mescolare realtà e finzione è da sempre la specialità dell’autore. A tal fine ha anche restaurato l’effetto Droste del romanziere che sta scrivendo un romanzo che somiglia al romanzo che stiamo leggendo. Il risultato però non è un labirinto epistemologico, ma la prima lezione di contorsionismo ombelicale. Stranamente, il primo incontro Patelski verte su un aspetto meno ludico: «Dopo un paio di domande informative sulla mia poesia e i miei romanzi portò la conversazione sulla nozione di empatia, che secondo lui costituiva l’aspetto più pregevole della letteratura. A questo proposito ero incline a schierarmi in tutta modestia dalla sua parte e ritenni di poter aggiungere che quella nozione nella nostra società complessa ed estremamente frammentata, caratterizzata in misura sempre maggiore da individualismo e assolutizzazione del proprio interesse, è più rara e più pregevole che mai». Tralasciando il fatto che l’empatia non è quella cosa che credono loro, l’opera di Pfeijffer è l’esempio più lampante che essa è più rara che mai.

In un libro dove lo sghignazzo e il cinismo regnano egemoni, dove i personaggi sono avversari su misura, dove lo scrittore espone una poetica kitsch-artigianale che si autoavvera, dove l’unica cosa memorabile deve essere il décor e l’unico schema mentale consiste in confidence tricks per adescare il lettore e infliggergli pseudo-becere fantasie sessuali, la verità tanto agognata dallo scrittore perisce in un vortice di nulla.

Non basta chiedere con tono pietoso al facchino Abdul, emblema senza nazionalità del profugo, di raccontargli la storia della sua fuga. Pfeijffer (l’autore? Il personaggio? No: lo stratega) gli suggerisce le parole che servono a giustificare un riuso letterario («Lei mi utilizza come materiale per il suo romanzo. Ma non è grave. Dovrei esserne onorato. E so che ciò non rende il suo interesse meno sincero»). Inoltre imbastisce un motivo poliziesco al fine di svelare l’intertestualità del racconto: Abdul, infatti, ha riscontrato molti punti di contatto tra la sua fuga e quella di Enea, e intarsiando la sua testimonianza di allusioni all’inclito antenato «ci ricorda che la sua storia è una storia senza tempo, e utilizzando una tecnica letteraria europea vecchia di secoli, dimostra di essere meglio integrato nella cultura europea di moltissimi altri che in Europa ci sono nati». E tanti saluti al pragmatismo.

Per lo scrittore esistono solo i temi, e l’immigrazione ha il vantaggio di essere attuale, controversa e piccante. L’esperienza con i fondi letterari gli ha insegnato che tematizzare la realtà, incluso l’uso strumentale della scrittura, paga. Non ci sarebbe nulla di male, se almeno lo scrittore facesse seriamente il suo lavoro. Come ormai sarà chiaro, le tesi principali di questo romanzo sono però triviali – tranne una: esiste un ampio consenso attorno al dato che il settore turistico produca scarso valore aggiunto. Lo scrittore, poi, è un modello perfetto di quello che Marchesini ha descritto come l’io romantico. Ma a parte i temi, la trama, i personaggi, le intenzioni e i dati, lo scrittore saprà almeno persuaderci con la forza del suo stile? Sappiamo già qual è la risposta che darebbe lui. Molti lettori l’hanno condivisa. Missione compiuta.

Grand Hotel Europa è un romanzo vacuo e mistificatore, che celebra tutte le ambizioni più ingenue della letteratura odierna e offre al lettore proprio ciò che più aborrisce: una realtà comodamente parcellizzata in temi usa e getta e in opinioni fast food, venduta in una confezione che ostenta letterarietà e impegno civile ma che delimita un territorio in cui allo scrittore è permesso dare libero sfogo a deliri di onnipotenza e al lettore regredire, evadere, sgranocchiare. E applaudire, ci mancherebbe.

 

(Ilja Leonard Pfeijffer, Grand Hotel Europa, trad. di Claudia Cozzi, Nutrimenti, 2020, 608 pp., euro 22, articolo di Giuseppe Cocomazzi)