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A proposito di “Racconti a orologeria” di Faruk Šehić

di Giuseppe Del Core / 8 dicembre

Per convenzione, o talvolta per gioco, riusciamo a dividere ogni esperienza tra un “prima” e un “dopo”. Non solo la Storia, ma le nostre stesse vite si scandiscono in una serie di momenti che, per approssimazione, possiamo definire come veri e propri tempi diversi – perché diversi eravamo noi, o perché diverso era il mondo, oppure, come quasi sempre, un po’ le due cose insieme.

Nella vita di Faruk Šehić , poeta e giornalista bosniaco classe 1970, e ovviamente non solo nella sua, questa demarcazione è perfino attestata: c’è stato un giorno, nel 1992, in cui fu costretto ad accettare un’identità nuova, a scapito di una che, in contemporanea, andava pian piano disgregandosi. La Jugoslavia cesserà di esistere solo nel 2003, ma fu appunto nel ’92 che la Bosnia – dopo Croazia e Slovenia – si dichiarò indipendente. Šehić, all’epoca poco più che ventenne, studiava veterinaria quando realizzò che «la Jugoslavia non esisteva più, che dovevo difendermi dagli attacchi dei serbi». Di lì a poco si sarebbe arruolato nell’Esercito bosniaco, al servizio di cui avrebbe combattuto per quattro anni, e la sua vita, come quella di tanti, non sarebbe più stata la stessa.

Questo processo storico, oltre ad aver ispirato Šehić («vedo le cose meglio degli altri e vedo cose che prima non vedevo»), deve aver ridefinito, in lui e in molti altri, il concetto stesso di identità. L’identità personale, proprio come quella sociale e politica, è in fondo qualcosa di accidentale – ed è soprattutto, al pari di ogni cosa, in balìa del tempo. Ed è infatti non l’identità – come avremmo invece potuto aspettarci – ma il tempo a finire al centro dell’indagine di Šehić. Il tempo come elemento, il tempo come dimensione, il tempo come mezzo e strumento.

A proposito dell’esperienza diretta sul campo di battaglia, Šehić ha dichiarato in un’intervista che «il tempo non esisteva». Pare, allora, in virtù di questa mancanza, averne fatto un’ossessione letteraria, volta, se non al recupero impossibile, all’opposizione di quel pensiero: al di là della guerra, oltre la morte procurata o assistita, esiste la vita, che si consuma nel tempo – e quindi sì, il tempo, almeno qui, esiste. E, poiché esiste, ne abbiamo paura – come tutte le cose che esistono e che non possiamo controllare, come la morte e come la guerra, l’una l’espressione peggiore dell’altra.

Nella constatazione della sua esistenza, nel terrore di quello che ci sfugge, lo misuriamo tra i ricordi e sulle lancette degli orologi (praticamente onnipresenti, come un ammonimento costante, tra le pagine di questi racconti).

Al di là di questa vita, poi, esiste forse un tempo che non ha le regole di quello che conosciamo, un tempo eterno che non possiamo figurare, in cui non esistono i concetti di “presto” e “tardi” – un tempo, se questo è il nome che vogliamo conservare, in cui tutto è fisso o tutto muta, in cui forse anche la nostra coscienza si sfuma.

Questo tempo è ciò che intuiamo nei sogni, o che restituiamo, col filtraggio della nostra esperienza, attraverso l’opera d’arte compiuta. È questo un tempo – un terzo, dunque, dopo quello terreno e quello ultra-terreno – in cui creazione e memoria si fondono, in cui l’esperienza personale si “collettivizza”. È in fondo il tempo delle storie di Racconti a orologeria (Mimesis), talvolta quasi al confine fra testimonianza e distopia, realismo e fantascienza. E se in questo mondo il tempo è un elemento che si può solo tentare di esprimere, senza riuscire ad afferrarlo mai, resta la concretezza degli altri elementi del mondo, e su tutti quella del corpo degli uomini. È l’evidenza del corpo che scatena il desiderio – e il desiderio distrae il tempo, così come il suo appagamento lo dilata, e nell’orgasmo «per un istante ci eclissiamo dentro un secondo infinito, il tempo si incurva come la luce in un buco nero». È una rassicurazione transitoria. La consolazione maggiore all’amore che manca – quando l’amore manca.

Sopravvissuto alla guerra, Šehić ha riportato i traumi, più o meno evidenti, di tutti i veterani. «Quella energia la metto in quello che scrivo», ha raccontato. E ha capito che la felicità si trova fuori dalla Storia («Se non ne fai parte, sei felice») – e che, come il tempo, anche se si può descrivere solo approssimativamente, esiste.

 

(Racconti a orologeria, F. Šehić, trad. di Elvira Mujcic, Mimesis Edizioni, 2020, € 12, pp. 124, articolo di Giuseppe Del Core)